lunedì 3 dicembre 2018


TFR NON PAGATO O PAGATO IN RITARDO AI PUBBLICI DIPENDENTI : COME FAR VALERE I PROPRI DIRITTI?
Il TFR è una retribuzione differita, ovvero una somma accantonata dal datore di lavoro che viene corrisposta al dipendente alla conclusione del rapporto di lavoro. Conosciuto anche come liquidazione o buonuscita, il TFR spetta sia ai dipendenti privati che agli statali.
Sussiste tuttavia una disparità di trattamento relativamente alla liquidazione del TFR (trattamento di fine rapporto) e TFS (trattamento di fine servizio) tra dipendenti pubblici e privati.
Infatti se sei un dipendente pubblico, sai che i tempi di attesa per ricevere il TFR sono molto più lunghi rispetto ai tempi per i lavoratori dipendenti privati!
E tale disparità potrebbe essere incostituzionale come presto ci dirà la Corte Costituzionale.
La problematica è stata oggetto di varie pronunce da parte della giurisprudenza, atteso che tale ritardo per i dipendenti pubblici potrebbe essere incostituzionale, ma nonostante ciò, il TFR continua ad essere pagato con colpevole ritardo.
Infatti, gli statali devono attendere diverso tempo - fino ad un massimo di 27 mesi - per ricevere il TFR.
Qual è la motivazione alla base di questa disparità di trattamento e qual è l’orientamento della giurisprudenza in merito?
TFR dipendenti pubblici: tempi per il pagamento e rateizzazione
Mentre per i dipendenti privati è il CCNL di riferimento a stabilire i tempi e le modalità per il pagamento del TFR, per gli statali, invece, sono due le norme alle quali fare riferimento: il Decreto Salva Italia 2011 e la Legge di Stabilità del 2014.
Nel dettaglio, con il primo è stato deciso che il TFR deve essere pagato:
  • entro 105 giorni: se il rapporto di lavoro è cessato per inabilità o decesso;
  • dopo 2 anni: se il rapporto di lavoro è cessato per dimissioni volontarie, licenziamento o destituzione.
La Legge di Stabilità del 2014, ha aggiunto che questo debba essere pagato:
  • dopo 1 anno: se il rapporto di lavoro è cessato per il pensionamento e raggiungimento dei requisiti di servizio o età.
Scaduti questi termini, inoltre, l’Inps ha tempo altri 3 mesi per poter procedere al pagamento della TFR; quindi, nel peggiore dei casi per ottenere la buonuscita si rischia di dover attendere fino a 27 mesi.
Il TFR, infatti, viene pagato in un’unica soluzione quando l’importo non supera i 50mila euro (prima della Legge di Stabilità il limite era di 90.000€); in caso contrario l’erogazione avviene in due (se importo compreso tra i 50mila e i 100mila euro) o tre tranche annuali.
Trattenere la liquidazione per così tanti mesi potrebbe essere incostituzionale; lo ha stabilito il Tribunale del Lavoro di Roma, il quale ha rivolto la questione alla Corte Costituzionale.
Nello specifico, una dipendente del Ministero della Giustizia si è rivolta al Tribunale del Lavoro di Roma per fare ricorso contro l’INPS, colpevole di aver trattenuto la sua liquidazione per più di 27 mesi.
Il Tribunale di Roma ha accolto il suo ricorso dichiarando che le misure introdotte per far fronte alla crisi economica del Paese non possono essere “permanenti e definitive”. Queste essendo legate alla gravità della situazione economica in un determinato periodo di crisi devono venir meno una volta che viene ristabilita la normalità.
Ecco perché oggi questa differenza di trattamento tra dipendenti pubblici e privati non ha motivo di esistere.
Inoltre, come ribadito dai giudici del Tribunale di Roma,  il TFR va retribuito tempestivamente poiché bisogna considerare che il lavoratore “specie se in età avanzata, in molti casi si propone, proprio attraverso l’integrale ed immediata percezione del trattamento, di recuperare una somma già spesa o in via di erogazione per le principali necessità di vita ovvero di fronteggiare in modo definitivo impegni finanziari già assunti”.
Ritardare il pagamento del TFR per i dipendenti pubblici potrebbe equivalere quindi ad una violazione delle norme della Costituzione. Ora l’ultima decisione spetterà alla Corte Costituzionale la quale avrà il dovere di valutare la questione di incostituzionalità mossa dal Tribunale di Roma.
E’ possibile per tutti coloro che siano DIPENDENTI PUBBLICI e si trovino in codesta situazione, rivolgersi ai nostri avvocati del Lavoro e proporre ricorso presso il Tribunale del Lavoro competente!
Per maggiori info e per conoscere la procedura, scrivi a: studiolegale@dirittissimo.com 

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ACCORDI DI BUONUSCITA

Cosa succede qualora datore di lavoro e lavoratore non abbiano più interesse a proseguire il rapporto di lavoro?
Talvolta tale interesse è comune alle parti oppure, in altri casi, è l’azienda stessa a sondare il terreno, convocando il lavoratore e presentandogli una proposta di chiusura bonaria del rapporto ( la cosiddetta “Buonuscita”), spesso formulata come un’unica alternativa ad un minacciato licenziamento in tronco.

 In questa fase è bene che il lavoratore non si sieda da solo al tavolo delle trattative con l’azienda e che si faccia assistere da un Avvocato del Lavoro, anche in considerazione che la controparte opera in tali frangenti quasi esclusivamente con l’ausilio di personale competente in materia  (avvocato del lavoro aziendale / direttore del personale / consulente del lavoro, che conducono direttamente la trattativa con il lavoratore o operano dietro le quinte, suggerendo quale strategia adottare all’azienda).
Per evitare dunque che ci sia questa sproporzionalità di tutela, è bene che il lavoratore si faccia assistere nelle trattative dagli Avvocati del Lavoro di Dirittissimo.

Questa fase è di fondamentale importanza e pertanto se portata avanti da avvocati esperti in diritto del lavoro può comportare ottimi vantaggi per il lavoratore, ottenendo ottimi risultati, non solo sotto il profilo delle trattative economiche,  ma anche sotto l’aspetto puramente legale nella redazione dell’importante testo di accordo tra le parti (cosiddetto “Tombale”).

Perché affidarsi allo staff di Dirittissimo?
Perché l’assistenza di un team di avvocati del lavoro esperti nel licenziamento consente di possedere una valutazione altamente probabilistica di come potrebbe concludersi l’eventuale processo e dunque di maturare una consapevole aspettativa nelle trattative pregiudiziali volte all’ottenimento della cosiddetta “Buonuscita”.

I nostri legali, esperti in diritto del lavoro approfondiranno il tuo caso, analizzando buste paga, bonus, premi, benefit ed ogni altro elemento economico da valutare nella relativa trattativa.
Tale valutazione, operata da Avvocati del licenziamento, consentirà di affrontare le trattative con la controparte con maggior sicurezza e decisione, elementi imprescindibili per uscirne vincenti.


Quindi il consiglio è di rivolgersi subito ad un nostro Avvocato del Lavoro e del Licenziamento! Se ci conferisci l’incarico, il primo appuntamento non avrà alcun costo!

Contatta il 328.2408154 oppure scrivi a: studiolegale@dirittissimo.com 


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LICENZIAMENTO PER SOPRAVVENUTA INIDONEITA’ ALLA MANSIONE

L’Avvocato del Lavoro con questo articolo commenta una decisione della Suprema Corte (Cass. Sez. Lav. 16 maggio 2016, n. 10018)  relativa ad un’impugnazione di un licenziamento per sopravvenuta inidoneità alla mansione, ricorso depositato da un collega Avvocato del Lavoro di Torino.
Si tratta di un lavoratore, licenziato a causa di una sopravvenuta infermità relativa parziale permanente che lo ha reso inidoneo a svolgere le mansioni precedente operate in azienda.

Erroneamente, a parere della Corte di Cassazione, l’azienda datrice di lavoro aveva giustificato il licenziamento, motivando tale scelta sul presupposto che fosse impossibile assegnare al lavoratore diverse ma equivalenti mansioni rispetto a quelle prestate sino a quel momento e che il lavoratore non avesse preventivamente manifestato espressamente la propria volontà ad un eventuale demansionamento.

Il ricorso per Cassazione presentato dall’Avvocato del Lavoro di Torino veniva pertanto accolto dalla Corte, la quale ha affermato come sia onere del datore di lavoro dimostrare non solo l’inidoneità fisica del lavoratore a svolgere l’attività lavorativa attuale e/o equivalente, ai sensi dell’Art. 2113 c.c., ma anche, in difetto, a mansioni diverse ovvero eventualmente inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore.

Pertanto, in tali casi, è opportuno che il lavoratore si rivolga ad un Avvocato del Lavoro per verificare preventivamente se la società datrice di lavoro abbia operato correttamente tale valutazione, estesa anche a mansioni inferiori, ed in caso contrario, procedere con l’impugnazione del licenziamento, presso il competente Tribunale.
Vuoi saperne di più sull’argomento e valutare se che anche tu puoi procedere in giudizio con l’impugnazione del licenziamento sopravvenuta inidoneità alla mansione?
Scrivi a dirittissimo@gmail.com oppure contatta il 328.2408154

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lunedì 19 novembre 2018


RISARCIMENTO DEL DANNO DA STRESS LAVORO CORRELATO

Il danno da stress lavoro correlato, secondo la definizione dell’art. 3 dell’Accordo Europeo dell’8 Ottobre 2004 (recepito dall’Accordo Interconfederale del 9 Giugno 2008), è una situazione di reiterata tensione che può determinare un peggioramento dello stato di salute, anche con ricadute patologiche gravi.

Tale situazione, come specificato anche dal citato Accordo Europeo, può riguardare ogni lavoratore, indipendentemente dalle dimensioni dell’azienda, dal settore di attività o dalla tipologia di contratto.

Come ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la Sentenza n. 5590 del 22 Marzo 2016, il risarcimento del danno da stress lavoro correlato “si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici.

Più precisamente, devono sussistere 3 presupposti affinchè il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno da stress lavoro correlato:

·      la condotta censurabile del datore di lavoro;
·      un danno medicalmente accertabile;
·      il nesso di causalità tra la condotta censurabile e il danno.

Quanto alla condotta del datore di lavoro, il riferimento è all’art. 2087 Cod. Civ. che stabilisce l’obbligo del datore di lavoro di “adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
A questo proposito, la Corte di Cassazione chiarisce che “l’obbligo che scaturisce dall’Art. 2087 non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore” (Cass. Civ., Sez. Lav., 02 Maggio 2000 n. 5491).

Da sottolineare che Cassazione ritiene configurabile un danno da stress lavoro correlato anche qualora il datore ometta di adeguare l’organico aziendale  “il mancato adeguamento dell’organico aziendale (in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro), nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo le regole di comune esperienza – la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione degli Artt. 41, comma 2, Cost. e 2087 Cod.Civ., e ciò anche quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore (estrinsecantesi nell’accettazione di straordinario continuativo – ancorché contenuto nel cosiddetto monte ore massimo contrattuale – o nella rinuncia a periodi di ferie), atteso che il comportamento del lavoratore non esime il datore di lavoro dall’adottare tutte le misure idonee alla tutela dell’integrità fisico-psichica dei dipendenti, comprese quelle intese ad evitare l’eccessività di impegno da parte di soggetti in condizioni di subordinazione socio-economica…”

La responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro è comunque sempre in capo all'azienda (quindi al datore) che non può sottrarsi agli addebiti che possono derivare dagli effetti lesivi di una inadeguata scansione dei tempi di attività e ha dichiarato il nesso tra l’infarto e l’impegno lavorativo oltre i limiti della tollerabilità.

Per quanto riguarda i danni che un medico può accertare come correlati ad una condizione di stress, essi possono essere svariati: malattie a base organica, come infarti o patologie dell’apparato immunitario o gastrointestinale, oppure malattie neurologiche e psichiche.

Con una nota Sentenza del 2012, la Suprema Corte di Cassazione  (Cass. Civ., Sez. Lav.,  24 Ottobre 2012 n. 18211) ha riconosciuto una somma risarcitoria, pari a € 25.000,00, ad un portinaio che, a causa dei lunghi turni di lavoro (dalle 21.00 alle 9.00), riportava una sindrome nevrotico ansiosa da stress lavorativo.

Secondo una delle ultime pronunce della Corte di Cassazione civile, sez. lavoro con  la sentenza n. 1185 del 18 gennaio 2017,  lo stress da lavoro, nel momento in cui pregiudica l’abituale e serena esistenza del dipendente, rientra nella categoria del danno non patrimoniale. Il danno non patrimoniale riguarda gli effetti negativi (che possono essere di natura  esistenziale, biologica  o morale) subiti dal cittadino di conseguenza ad un fatto illecito. Il danno non patrimoniale, a differenza dei danni patrimoniali, non da' automaticamente diritto al risarcimento.

Ci sono poi svariati altre casistiche in cui è possibile richiedere il risarcimento del danno non patrimoniale.

Se pensi che il Tuo caso rientri in una delle fattispecie come sopra descritte, puoi contattare un nostro avvocato del lavoro tramite email: studiolegale@dirittissimo.com  per prendere un appuntamento in una delle nostre sedi di Milano o Torino.


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giovedì 15 novembre 2018


MUTUI E SPREAD: BISOGNA FARE CHIAREZZA

In questi ultimi mesi, nei quali lo spread tra i titoli di Stato italiani e quelli tedeschi rimane sempre molto alto (oltre i 300 punti base), si legge spesso sui quotidiani nazionali che ciò non avrebbe alcuna influenza sul costo dei prestiti accesi da persone e imprese presso le banche.
Sul punto occorre fare chiarezza.

I prestiti vanno, innanzitutto, distinti tra:
-          mutui che sono già stati contratti con le banche prima dell’inizio del recente rialzo dello spread
-          mutui ad oggi non ancora contratti, e che saranno stipulati in futuro.

I prestiti con le banche si distinguono, inoltre, in mutui a tasso fisso, e mutui a tasso variabile.
I mutui a tasso fisso non variano, teoricamente (occorre però sempre controllarne la corretta applicazione pratica), con riferimento al tasso di interesse praticato.

I mutui a tasso variabile dipendono, nell’applicazione dei tassi di interesse, dall’indice Euribor, rilevato dalla Banca Centrale Europea. L’Euribor indica il tasso di interesse con il quale le banche si prestano, tra di loro, il denaro. Tale indice varia anche in dipendenza di decisioni dirette della BCE.
In considerazione del fatto che l’aumento dello spread tra BTP e Bund causa una diminuzione del valore dei Titoli di Stato italiani posseduti dalle Banche, è possibile che queste, al fine di recuperare liquidità, aumentino i tassi di interesse del denaro che si prestano tra di loro. Conseguentemente, potrebbe essere possibile che, nel futuro prossimo, l’indice Euribor aumenti, con conseguente aumento dei costi dei mutui a tasso variabile. 

Chi, cioè, ha contratto con una banca, anche prima che lo spread tra BTP e BUND subisse gli attuali rialzi, un mutuo a tasso variabile, potrebbe vedere aumentare i tassi di interesse a causa, indirettamente, del rialzo dello spread. Anche per i mutui già contratti nel passato, quindi, si presentano problemi causati dallo spread.
Per i mutui stipulati ora, nonché futuri, i problemi inerenti a tassi di interesse elevati sono invece assai probabili.

Alcune banche, per i nuovi mutui, hanno già aumentato i costi per i clienti.

Occorre poi fare molta attenzione, al di là dei tassi di interesse scritti nei contratti di mutuo, a quelli effettivamente applicati dalle banche.
Infatti, ogni discorso concernente lo “stare tranquilli” se si guarda solo a quanto c’è effettivamente scritto nei contratti bancari cessa di avere rilevanza se, nell’addebito sul conto corrente, sono applicati, effettivamente tassi di interesse più elevati di quelli previsti nel contratto, o rispetto a quelli legali.

Come spesso purtroppo è capitato nel passato, alcuni istituti bancari, nei momenti nei quali si trovano in difficoltà economica (come in questo momento, dove gli istituti, detentori di ingenti quantità di Titoli di Stato italiani, ne vedono diminuire il valore) scaricano de facto costi più elevati, sotto forma di interessi e spese non dovute, sui correntisti (e soprattutto sui correntisti, più che sui tassi di prestito del denaro tra le banche medesime). I quali, magari, non se ne accorgono, e pagano, inconsapevolmente, più del dovuto, attraverso addebiti illegittimi sul conto corrente.

Per questo è importante, in modo particolare in questo momento storico di tensioni finanziarie, rivolgersi ad un avvocato esperto di diritto bancario, al fine di fare controllare i propri contratti bancari, per verificare soprattutto che siano applicati dei tassi di interesse corretti, entro il limite della soglia dell’usura.


Se desideri richiedere un appuntamento con l'avvocato esperto di diritto bancario scrivi a: dirittissimo@gmail.com


venerdì 9 novembre 2018



LAVORI USURANTI: Possibilità di pensione in anticipo. Con quali requisiti?

Se svolgi delle mansioni particolarmente pesanti, oppure ti assegnano lavori di notte potresti rientrare nella categorie di coloro che svolgono lavori usuranti.

L’elenco di tali lavori è previsto in un decreto del 2011 e comprende:
-chi lavora in galleria, cava o miniera;
-chi lavora in cassoni ad aria compressa;
-chi lavora ad alte temperature;
-chi lavora il vetro cavo;
-chi lavora per asportare l’amianto;
-lavori svolti prevalentemente e continuativamente in spazi ristretti (attività di manutenzione, riparazione navale)
-conducenti di veicoli adibiti al servizio pubblico di trasporto collettivo, con capienza superiore a 9 posti;
-chi lavora a catena o in serie.

Per aver accesso alla pensione agevolata, l’attività usurante deve esser stata svolta:
-per almeno 7 anni, negli ultimi 10 anni di vita lavorativa;
-per almeno metà della vita lavorativa.

Il beneficio della pensione di anzianità riconosciuto a tali categorie, è esteso anche a chi svolge lavori in orari notturni.

Si tratta di una particolare tipologia di pensione di anzianità, raggiungibile con una determinata quota minima (ovvero la somma del requisito di età e del requisito di contribuzione).
La quota è pari a 97,6 con almeno:
1)61 anni e 7 mesi di età;
2)35 anni di contributi.

A seconda del tipo di contribuzione, possono essere alzati di 1 anno i requisiti (es. per chi ha una contribuzione mista da lavoro dipendente ed autonomo).

COME E QUANDO INVIARE LA DOMANDA DI PENSIONE PER LAVORO USURANTE:

Prima della domanda di pensione, occorre inviare una domanda all’Inps per certificare il possesso dei requisiti.

La domanda va inviata entro il 1 Maggio dell’anno precedente a quello in cui si maturano i requisiti agevolati.

L’Inps certifica il possesso dei requisiti e da’ la possibilità poi di chiedere la pensione vera e propria.
Per gli adempimenti necessari alla presentazione della domanda, contatta un avvocato del lavoro e previdenziale di Dirittissimo ai nostri contatti:
dirittissimo@gmail.com – 328.2408154



venerdì 2 novembre 2018


TERMINI D’IMPUGNAZIONE DEL LICENZIAMENTO

Quali sono i termini di impugnazione del licenziamento ? E quali le conseguenze se il lavoratore non rispetta la decadenza e la prescrizione ?
Cari lettori, l’Avvocato del Lavoro in questo breve articolo intende affrontare un aspetto molto delicato dell’impugnazione del licenziamento.

Accade di frequente che alcuni lavoratori che volevano impugnare il proprio licenziamento,  purtroppo erano ormai preclusi da tale azione, in quanto erano già scaduti i termini di prescrizione e decadenza per esercitare tale diritto.
Quali sono questi due diversi termini e come possono essere esercitati dal lavoratore licenziato?

La Legge prevede due termini relativi all'impugnazione del licenziamento:
-un primo più breve, di 60 giorni, per impugnare il licenziamento tramite una comunicazione scritta inviata al datore di lavoro (Art. 6 L. 604/66).
Il termine decorre dal giorno in cui il lavoratore ha ricevuto la lettera di licenziamento.
Proprio in questo primo atto di impugnazione, è consigliabile che il lavoratore si faccia assistere da un buon Avvocato del Lavoro, poiché anche un semplice errore in tale fase può precludere l’intera azione di impugnazione del licenziamento.

La lettera di impugnazione deve contenere i riferimenti del licenziamento che si vuole impugnare, deve essere sottoscritta personalmente dal lavoratore (oltre che dall'eventuale Avvocato del Lavoro che lo assiste), il quale deve porre la propria formale messa a disposizione per la ripresa dell’attività e si intende tempestivamente effettuata qualora la spedizione della stessa avvenga entro e non oltre il sessantesimo giorno (vale il giorno della spedizione, anche se ricevuta oltre tale termine dal datore).

Anziché redigere la lettera di impugnazione, si può procedere al deposito del ricorso giudiziale, ma seguendo questa strada verrebbe meno la prima fase di eventuale trattativa bonaria tra lo stesso Avvocato del Lavoro e la controparte (o suo legale) che molto frequentemente può concludersi per il lavoratore con un ottimo risultato, molto simile a quello dell’eventuale e successivo giudizio.
-Il secondo termine, invece, di 180 giorni, decorre dalla data di spedizione della lettera di impugnazione del licenziamento; entro tale termine, l’Avvocato del Lavoro che assiste il lavoratore licenziato, potrà depositare il ricorso giudiziale, a pena di prescrizione.

Recente Cassazione afferma a riguardo che qualora il lavoratore non rispetti i termini di decadenza (60 giorni) e prescrizione (180 giorni) per l’impugnazione del licenziamento, gli sarà precluso il diritto di far accertare giudizialmente l’eventuale illegittimità dello stesso e di conseguire il relativo risarcimento del danno nella misura prevista dalle due alternative discipline applicabili al caso de quo (Art. 8, L. 604/66 oppure Art. 18, L. 300/70).

In questi casi, è consigliabile farsi assistere da un Avvocato del Lavoro, così da sapere in quale modo e entro quali termini far valere il proprio diritto all'impugnazione del licenziamento.



Per saperne di più, puoi rivolgerTi ad un avvocato del lavoro dello studio legale Dirittissimo ed inviare una email a: dirittissimo@gmail.com
Visita il sito www.dirittissimo.it e fissa un appuntamento presso una delle nostre sedi di Milano o Torino!

venerdì 5 ottobre 2018


CONSIGLI PER RECUPERARE LO STIPENDIO SE IL DATORE DI LAVORO NON PAGA LA BUSTA

Spesso i lavoratori, specialmente di questi tempi, si ritrovano a dover  “fare i conti” con la crisi dell’azienda e a non ricevere gli stipendi concordati. Questi, infatti, vengono sospesi, ridotti e a volte non pagati.
Che fare, allora, in questi casi? In molti si rivolgono, in prima battuta, al sindacato.
E, purtroppo, neanche in questo caso riescono ad ottenere sempre giustizia.
Così non resta che rivolgersi all’avvocato del lavoro.

L’avvocato del lavoro cerca in prima battuta di raggiungere soluzioni non conflittuali, per poi ricorrere al giudice quando proprio ha tentato tutte le carte.

Cosa, allora, potrebbe consigliarvi il vostro legale di fiducia, per recuperare lo stipendio non pagato?

1)    La diffida
Di sicuro, un atteggiamento inizialmente collaborativo può essere una scelta vincente, specie con le aziende che hanno una momentanea crisi di liquidità.
La lettera di sollecito (anche detta “messa in mora” o “diffida”) serve anche a interrompere i termini della prescrizione. La lettera viene redatta dall’avvocato del Lavoro e in essa è sempre meglio quantificare con esattezza l’importo dovuto, quanto meno indicando le mensilità e gli altri emolumenti che non sono stati pagati.
Se poi il conteggio è complesso, e include anche rivendicazioni di straordinari e permessi non retribuiti, meglio farsi redigere un conteggio analitico da un consulente del lavoro (documento che, eventualmente, potrà anche essere allegato alla lettera di diffida).
2)    La conciliazione alla DTL

La Direzione Territoriale del Lavoro è un organo che si trova in tutte le province (ha infatti sostituito la vecchia DPL, Direzione Provinciale del Lavoro). Tra i suoi compiti vi è quello di svolgere dei tentativi di conciliazione tra lavoratori e datore di lavoro (tentativi che, una volta, dovevano essere esperiti obbligatoriamente prima di fare la causa in tribunale; oggi invece sono liberi e volontari).
Il tentativo di conciliazione, che si svolge davanti a un avvocato del Lavoro e uno dell’azienda, con un presidente della commissione, è gratuito e relativamente breve (tutto si svolge in una udienza o al massimo due). A seconda del carico di lavoro dell’ufficio, la convocazione delle parti viene effettuata a distanza di poche settimane dalla richiesta.
Su richiesta dell’Avvocato del lavoro, la DTL comunicherà poi alle parti la data dell’incontro. In tale sede, il mancato raggiungimento dell’accordo non ha alcuna ripercussione né sanzione per entrambe le parti. Al contrario, il verbale di accordo diventa titolo esecutivo e consente al lavoratore – in caso di inadempimento del datore – di andare direttamente dall’ufficiale giudiziario per il pignoramento (previa notifica dell’atto di precetto). Ma per questo è necessario comunque valersi di un avvocato che spiegherà meglio la procedura.
3) La negoziazione assistita
Lo strumento è stato appena inserito dalla nuova riforma della giustizia e richiede la presenza degli avvocati del lavoro di entrambe le parti. Anch’esso è un sistema di risoluzione stragiudiziale della controversia, che mira a tentare un accordo bonario tra le parti.

4) Tentativo di conciliazione monocratico
Sempre presso la DTL il lavoratore può chiedere l’intervento di un ispettore che verifichi se il datore è in regola con le norme lavoristiche e contributive. Come lo strumento della conciliazione, anche questo è volontario, facoltativo.
A differenza dell’altro tentativo di conciliazione in DTL, in tal caso, se non si raggiunge l’accordo, scatta una verifica presso la sede del datore per accertare (con acquisizione di documentazione e testimonianze) se il rapporto di impiego si è svolto correttamente o meno. E, in quest’ultimo caso, potrebbero essere comminate all’azienda sanzioni particolarmente rilevanti.

5) Ricorso in Tribunale
La carta del tribunale è sicuramente l’ultima strada da considerare: sia per i tempi che comporta, sia per i costi, sia soprattutto per la forte conflittualità che si potrebbe creare tra le parti in causa.
Tuttavia, se l’azienda è a rischio insolvenza e, quindi, in procinto di fallimento, forse è meglio non aspettare e procedere subito con la via giudiziale: in tal modo vi procurereste subito un titolo da spendere poi, in caso di fallimento, innanzi al giudice delegato e ottenere più velocemente il pagamento.

Per maggiori informazioni, potete scrivere a: dirittissimo@gmail.com 

-Studio legale Dirittissimo


martedì 25 settembre 2018


CASSAZIONE SEZIONI UNITE 24 SETTEMBRE 2018 - N.22434/2018

PENSIONE DI REVERSIBILITA’: NIENTE ASSEGNO ALL’ EX CONIUGE CHE HA PERCEPITO L’ASSEGNO DIVORZILE IN UNICA SOLUZIONE

In caso di divorzio, se l’ex coniuge ha percepito l’assegno divorzile in un’unica soluzione, non ha diritto a ricevere la reversibilità, in quanto dice la Cassazione, “la titolarita’ dell’assegno divorzile “deve intendersi come titolarita’ attuale e concretamente fruibile dell’assegno divorzile, al momento della morte dell’ex coniuge, e non gia’ come titolarita’ astratta del diritto all’assegno divorzile che e’ stato in precedenza soddisfatto con la corresponsione in una unica soluzione”.
Il presupposto per il trattamento previdenziale è il venir meno del sostegno economico ed il fatto che l’art. 9 della legge 898/1970 riconosca il diritto all'assegno di reversibilità se l’ex coniuge non si è risposato, conduce a correlare il diritto alla pensione di reversibilità all'attualità della corresponsione dell’assegno divorzile.
In tal modo è stato risolto un contrasto giurisprudenziale in seno alla Corte di Cassazione.
Per maggiori informazioni scrivere a: inforicorsipensioni@gmail.com 

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lunedì 24 settembre 2018

martedì 11 settembre 2018


ATTENZIONE ALLE COMUNICAZIONI DELL’INPS RELATIVE ALLE SOMME CORRISPOSTE IN MANIERA ERRONEA.


Non di rado, molti pensionati ricevono comunicazioni dell’INPS circa somme corrisposte in maniera erronea sulla pensione.

Si tratta di un fenomeno molto frequente nel rapporto tra Inps e pensionati, quello dell’erogazione di somme di pensione maggiori di quelle spettanti e nella maggior parte dei casi il cittadino non sa nemmeno il perché gli abbiamo corrisposto una cifra maggiore di quella che gli spettava e si trova così ad essere un debitore senza colpe.

E’ quel che è successo ad una signora nostra cliente che, da un giorno all’altro, si è vista arrivare una comunicazione in cui l’Inps le chiedeva la restituzione di ben Euro 14.000,00 con la motivazione di un errore nel calcolo della pensione comunicando che da un certo giorno, avrebbe iniziato a trattenere parte della pensione residua come rata del debito.

Che fare in tali casi?

E’ bene sapere che la Cassazione (nel 2017) si è espressa per far fronte a tali situazioni purtroppo non infrequenti, affermando che L'ente erogatore, l’Inps, può rettificare in ogni momento le pensioni per via di errori di qualsiasi natura, ma non può recuperare le somme già corrisposte, a meno che l'indebita prestazione sia dipesa dal dolo dell'interessato. 


La Cassazione fa riferimento ad un principio generale di irripetibilità delle pensioni secondo cui "le pensioni possono essere in ogni momento rettificate dagli enti erogatori in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione o di erogazione della pensione, ma non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l'indebita prestazione sia dovuta a dolo dell'interessato”, ipotesi, peraltro, assai improbabile o difficile da dimostrare.

Si tratta di una pronuncia che cerca di porre rimedio ad un fenomeno molto frequente nel rapporto tra Inps e pensionati.

…..(la Cassazione sezione lavoro è n. 482/2017)

Se anche Tu hai ricevuto una richiesta di restituzione di soldi puoi contattare i nostri avvocati per tutelare la Tua posizione.

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lunedì 10 settembre 2018



INFORTUNIO IN PALESTRA: COME COMPORTARSI?

IN QUALI CASI E’ POSSIBILE OTTENERE UN RISARCIMENTO?

Ti è mai capitato di farti male in palestra, magari cadendo, mentre ti appresti a fare i tuoi esercizi, per esempio, sul tapis roulant?

Ci sono dei casi in cui puoi chiedere ed ottenere il risarcimento al gestore della palestra.

In linea generale è bene sapere che per il risarcimento dell’infortunio procuratovi all’interno della palestra, sono applicabili le regole che valgono per i casi di sinistri stradali.

Fra cliente e la palestra, già dal momento dell’iscrizione, s’intende concluso un vero e proprio contratto atipico, cioè non specificatamente disciplinato dal Codice Civile.

L’iscritto nel momento in cui si iscrive in palestra, acquista, dietro corresponsione di una somma di denaro a titolo di abbonamento, il diritto di usufruire della palestra e il dovere da parte dell’istruttore con una preparazione professionale di essere in grado di valutare a priori se l’iscritto può/ è capace di effettuare quel determinato esercizio senza che ciò costituisca un rischio.

Di contro, il gestore della palestra può dedurre la capacità del soggetto di esser in grado di svolgere  un certo tipo di attività, solo dopo che l’iscritto abbia consegnato il certificato medico che attesti il suo buono stato di salute.

ALCUNI CONSIGLI UTILI

Anzitutto, è consigliabile scegliere una palestra che preveda un’assicurazione il più possibile onnicomprensiva.

L’assicurazione è obbligatoria solo per i tesserati con le federazioni e discipline riconosciuti dal CONI, ma in generale i centri sportivi sono muniti di assicurazione in caso di infortunio dei clienti. La quota assicurativa in questi casi, se non è autonoma, viene inserita in quella di iscrizione o di associazione. E’ quindi buona abitudine informarsi sulle condizioni della polizza assicurativa e, in alternativa, tutelarsi autonomamente stipulando una polizza del modello delle assicurazioni R.C.: ne esistono di tutte le tipologie ed i costi sono relativamente contenuti.

Da un punto di vista pratico, appena avvenuto l’infortunio, è necessario rivolgersi subito al medico e farsi rilasciare, dopo la visita, un certificato che comprovi la gravità del danno e indichi le cure mediche da seguire.

Inoltre, è bene conservare sempre tutte le ricevute dei pagamenti effettuati per svolgere le terapie per poter ottenere il rimborso degli stessi.

Occorre avvertire dell’incidente/infortunio altresì il gestore della palestra e la Compagnia Assicuratrice, meglio se con una raccomandata con ricevuta di ritorno per conservare la prova dell’avvenuta ricezione.

Di norma, anche il medico dell’assicurazione effettua una visita per verificare l’effettivo danno, a seguito della quale verrà proposta una liquidazione.

Detto ciò, prestate attenzione alle ipotesi che si possono verificare:

1) se la palestra non è assicurata per infortuni o lo è, ma non per il tipo di infortunio avvenuto….

In questi casi può essere utile rivolgersi ad un legale per farsi consigliare ed, eventualmente, intraprendere una causa giudiziale di risarcimento danni.

2)se gli attrezzi della palestra sono degradati…

In tali casi, dovete sapere che in virtù dell’art. 2051 cc. il gestore è il “custode” dei beni presenti all’interno dei locali e dunque ha l’obbligo di adottare tutte le cautele necessarie per preservare l’incolumità fisica dei clienti della palestra. Pertanto, deve cercare di prevenire qualsiasi situazione di pericolo dovuta al malfunzionamento degli attrezzi della palestra. A titolo esemplificativo, deve controllare che i cavi di una panca con i pesi siano ben saldi o che il pavimento non sia scivoloso.

Se trascura la regolare di ordinaria manutenzione e, a causa di ciò, si verifica un infortunio, sarà necessariamente obbligato a risarcire il danno.

Potrebbe invece sussistere una responsabilità in solido tra gestore della palestra e insegnante, per esempio di un corso che si svolge in palestra, nell’ipotesi in cui l’infortunio si verificasse durante lo svolgimento di un esercizio consigliato dall’insegnante stesso; quest’ultimo infatti potrebbe rispondere dell’infortunio assieme al gestore della struttura, poiché gli esercizi devono essere calibrati in base all’età, alle condizioni fisiche e alle effettive capacità degli allievi. La casistica è talmente vasta che è impossibile ridurla ad una regola universale.

E’ sempre consigliabile sentire il parere di un legale che possa far luce sulla della responsabilità in capo all’insegnante o al gestore. 

Attenzione, perché i casi vanno valutati analiticamente di volta in volta. Esistono dei casi in cui non ci si può appellare al mancato controllo sulle attrezzature da parte del gestore della palestra (quando per esempio, la persona, un principiante, avrebbe dovuto con l’ordinaria diligenza, evitare di fare un movimento per il quale non era allenato).

Sarà poi il giudice a valutare se il danno è derivato dalla potenziale lesività dell’attrezzatura e/o a causa del comportamento negligente del gestore/insegnante. In altre parole, se il danno non è conseguenza di un comportamento imprudente e indisciplinato del cliente o di un evento totalmente imprevedibile ed eccezionale, il giudice riconoscerà un diritto al risarcimento.


TIPOLOGIE DI DANNI CHE POSSONO ESSERE RISARCITI

Generalmente vengono rimborsate le spese sostenute per le terapie e il mancato guadagno derivante dal danno, ad esempio per il fatto che non si è potuti svolgere l’attività lavorativa a causa del riposo forzato imposto dal medico.

E’ bene sapere che la giurisprudenza riconosce inoltre come risarcibili anche il c.d. danno morale e quello c.d. danno biologico.

Il primo consiste nel “momentaneo turbamento psicologico collegato alla sofferenza fisica e al dolore morale” mentre il secondo, più grave, si verifica quando l’infortunio ha inciso negativamente sullo stato d’animo di chi l’ha subito e sulla sua attitudine psicologica a partecipare alle normali attività quotidiane. La categoria è ampia e ricomprende, tra le tante, la riduzione dalla capacità di relazione con altri individui e la diminuzione dell’attitudine di una persona a lavorare, od anche la diminuzione della capacità sessuale.

Qualora vi fosse capitata una situazione simile e volete sapere se c’è possibilità di chiedere un giusto risarcimento, consigliamo di sentire il parere di un legale che Vi potrà illustrare la casistica e valutare con Voi la possibilità di intraprendere un’azione legale per ottenere quanto Vi spetta.


Abg. Celeste Collovati

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