martedì 10 dicembre 2019


RICORSI VS TAGLI ALLE C.D. PENSIONI D’ORO

Di recente, sul tema, si è espressa la Corte dei conti di Trieste, con l’ordinanza n. 6/2019, un primo traguardo per noi avvocati impegnati nella procedura giudiziale volta a far valere l’incostituzionalità della parte di legge di bilancio (145/2018) che prevede l’ennesimo blocco della perequazione e il prelievo straordinario sulle pensioni di importo medio-alto (c.d. “pensioni d’oro”).

Uno dei punti forti dell’ordinanza che fa sull’incostituzionalità del provvedimento dei tagli, è proprio il fatto che tali provvedimenti legislativi che stabiliscono i tagli e il blocco perequativo, non rispettano minimamente i tre fondamentali principi posti dalla Corte Costituzionale in tema di previdenza: ragionevolezza, adeguatezza, affidamento.

Inoltre, la modalità di prelievo con durata quinquennale, non si può di certo definire una misura occasionale, atta a giustificare una condizione di eccezionalità e/o di specifica crisi del settore previdenziale, cui si debba far fronte con tale forma di vero e proprio “prelievo fiscale” . Questo prelievo, essendo limitato solo ad una ristretta cerchia di soggetti, si palesa dunque del tutto ingiustificato e discriminatorio, impropriamente sostitutivo di un intervento di fiscalità generale nei confronti di tutti i cittadini. 

Abbiamo presentato e presenteremo ancora ricorsi alla Corte dei Conti o al Tribunale Ordinario del Lavoro, a seconda che si tratti di pensionati ex dipendenti pubblici, ovvero di privati. Le norme approvate con la Legge di Bilancio per il 2019, reiterano precedenti norme sui tagli e pertanto, riteniamo, siano da dichiarare incostituzionali.

L’auspicio è che anche gli altri Tribunali e Corti dei Conti si associno a tale ordinanza così da far prevalere l’illegittimità di un provvedimento che discrimina categorie di pensionati a discapito di coloro che hanno sempre lavorato e versato onestamente i contributi durante la loro vita lavorativa”.

 Avv. Celeste Collovati


martedì 22 ottobre 2019



5 CONSIGLI PER RECUPERARE LO STIPENDIO SE IL DATORE DI LAVORO NON PAGA LA BUSTA

Spesso i lavoratori, specialmente di questi tempi, si ritrovano a dover  “fare i conti” con la crisi dell’azienda e a non ricevere gli stipendi concordati. Questi, infatti, vengono sospesi, ridotti e a volte non pagati.
Che fare, allora, in questi casi? In molti si rivolgono, in prima battuta, al sindacato.
E, purtroppo, neanche in questo caso riescono ad ottenere sempre giustizia.
Così non resta che rivolgersi all’avvocato del lavoro.

L’avvocato del lavoro cerca in prima battuta di raggiungere soluzioni non conflittuali, per poi ricorrere al giudice quando proprio ha tentato tutte le carte.

Cosa, allora, potrebbe consigliarvi il vostro legale di fiducia, per recuperare lo stipendio non pagato? L’avvocato del Lavoro ve lo spiega in questo articolo

1)    La diffida
Di sicuro, un atteggiamento inizialmente collaborativo può essere una scelta vincente, specie con le aziende che hanno una momentanea crisi di liquidità.
La lettera di sollecito (anche detta “messa in mora” o “diffida”) serve anche a interrompere i termini della prescrizione. La lettera viene redatta dall’avvocato del Lavoro e in essa è sempre meglio quantificare con esattezza l’importo dovuto, quanto meno indicando le mensilità e gli altri emolumenti che non sono stati pagati.
Se poi il conteggio è complesso, e include anche rivendicazioni di straordinari e permessi non retribuiti, meglio farsi redigere un conteggio analitico da un consulente del lavoro (documento che, eventualmente, potrà anche essere allegato alla lettera di diffida).
2)    La conciliazione alla DTL

La Direzione Territoriale del Lavoro è un organo che si trova in tutte le province (ha infatti sostituito la vecchia DPL, Direzione Provinciale del Lavoro). Tra i suoi compiti vi è quello di svolgere dei tentativi di conciliazione tra lavoratori e datore di lavoro (tentativi che, una volta, dovevano essere esperiti obbligatoriamente prima di fare la causa in tribunale; oggi invece sono liberi e volontari).
Il tentativo di conciliazione, che si svolge davanti a un avvocato del Lavoro e uno dell’azienda, con un presidente della commissione, è gratuito e relativamente breve (tutto si svolge in una udienza o al massimo due). A seconda del carico di lavoro dell’ufficio, la convocazione delle parti viene effettuata a distanza di poche settimane dalla richiesta.
Su richiesta dell’Avvocato del lavoro, la DTL comunicherà poi alle parti la data dell’incontro. In tale sede, il mancato raggiungimento dell’accordo non ha alcuna ripercussione né sanzione per entrambe le parti. Al contrario, il verbale di accordo diventa titolo esecutivo e consente al lavoratore – in caso di inadempimento del datore – di andare direttamente dall’ufficiale giudiziario per il pignoramento (previa notifica dell’atto di precetto). Ma per questo è necessario comunque valersi di un avvocato che spiegherà meglio la procedura.
3) La negoziazione assistita
Lo strumento è stato appena inserito dalla nuova riforma della giustizia e richiede la presenza degli avvocati del lavoro di entrambe le parti. Anch’esso è un sistema di risoluzione stragiudiziale della controversia, che mira a tentare un accordo bonario tra le parti.

4) Tentativo di conciliazione monocratico
Sempre presso la DTL il lavoratore può chiedere l’intervento di un ispettore che verifichi se il datore è in regola con le norme lavoristiche e contributive. Come lo strumento della conciliazione, anche questo è volontario, facoltativo.
A differenza dell’altro tentativo di conciliazione in DTL, in tal caso, se non si raggiunge l’accordo, scatta una verifica presso la sede del datore per accertare (con acquisizione di documentazione e testimonianze) se il rapporto di impiego si è svolto correttamente o meno. E, in quest’ultimo caso, potrebbero essere comminate all’azienda sanzioni particolarmente rilevanti.

5) Ricorso in Tribunale
La carta del tribunale è sicuramente l’ultima strada da considerare: sia per i tempi che comporta, sia per i costi, sia soprattutto per la forte conflittualità che si potrebbe creare tra le parti in causa.
Tuttavia, se l’azienda è a rischio insolvenza e, quindi, in procinto di fallimento, forse è meglio non aspettare e procedere subito con la via giudiziale: in tal modo vi procurereste subito un titolo da spendere poi, in caso di fallimento, innanzi al giudice delegato e ottenere più velocemente il pagamento.

Contatta subito un avvocato del lavoro dello studio legale Dirittissimo per spiegare il Tuo caso, scrivi a: studiolegale@dirittissimo.com!!

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mercoledì 2 ottobre 2019


LAVORO NERO: COME TUTELARSI? 

Per lavoro nero s’intendono tutte quelle attività lavorative svolte senza che siano effettuate le necessarie comunicazioni relative all’assunzione, ai competenti Enti Pubblici (Centri per l'impiego, enti previdenziali). Il lavoro nero può essere svolto in un contesto aziendale oppure in maniera autonoma (es. lavoro domestico).

Leggi tutto l'articolo!

Per raccontare il Tuo caso e tutelare i Tuoi interessi puoi scrivere a: studiolegale@dirittissimo.com e fissare un appuntamento con un nostro avvocato del lavoro!

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giovedì 26 settembre 2019


INCIDENTI STRADALI CAUSATI DALLA CATTIVA MANUTENZIONE DELLE STRADE: quale responsabilità dell’Ente Pubblico? Gli ultimi arresti della Cassazione.

Tema sempre dibattuto nella giurisprudenza dei Tribunali è quello riguardante la responsabilità civile risarcitoria dell’Ente Pubblico proprietario, ovvero gestore, della strada, nei confronti di quei soggetti che (troppo spesso) sono vittime di incidenti stradali causati dalla cattiva manutenzione della via pubblica. L’argomento rimane, purtroppo, ancora di attualità: basti ricordare gli attuali problemi dovuti ai danni alle auto, o ai motocicli, per via delle strade gravemente dissestate nel Comune di Roma Capitale.

Questo articolo intende fare chiarezza su un tema che ha visto, nel corso del tempo, mutare gli orientamenti della Giurisprudenza, la quale, anche al suo vertice, ha dato in alcuni casi risposta affermativa alla domanda risarcitoria, in altri, identici o similari, invece, risposta contraria.

Quali sono, allora, per l’utente della strada pubblica, oggi, i punti fermi ai quali ancorarsi al fine di essere risarcito dall’Ente responsabile della cattiva manutenzione e che abbia causato danni a persone e/o a cose?
In quali casi si ha effettivamente diritto al risarcimento? Con quali limiti?
Cosa occorre provare?
Cosa invece deve provare l’Ente Pubblico (ad esempio, il Comune, ovvero la Provincia ecc.) al fine di andare esente da responsabilità civile?

Due decisioni della Corte Suprema di Cassazione, entrambe depositate l’1 febbraio 2018, sono particolarmente preziose ai nostri fini, in quanto fanno il punto sul più attuale “stato dell’arte” della materia, ne enucleano i principi fondamentali, e pretendono avere raggiunto uno stabile approdo interpretativo ed applicativo.

Va, innanzitutto, detto che l’utente della strada pubblica, che subisca danni per causa della medesima, trova la propria fondamentale tutela risarcitoria nell’art. 2051 del Codice Civile, il quale afferma: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. La giurisprudenza ha da tempo (correttamente) applicato tale disposizione normativa alle strade pubbliche, in quanto cose custodite dallo Stato o da altro Ente (Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni etc.).

La prima Sentenza, della III Sezione Civile della Cassazione, la n. 2479/2018, riguarda un triste caso di morte di un soggetto, il quale, a causa della presenza di una transenna rovesciata in prossimità di un tombino con coperchio non fissato, ed a causa del pessimo stato del manto stradale (che presentava profonde crepe e scanalature dell’asfalto), aveva perso il controllo del mezzo, ed era stato investito da una vettura proveniente dal lato opposto della carreggiata.

Sia il Tribunale, in primo grado, che la Corte d’Appello in secondo grado, avevano rigettato le domande di risarcimento dei danni da morte del congiunto promosse dai famigliari del deceduto.
Il Tribunale, in primo grado, non aveva, erroneamente, nemmeno applicato la norma dell’art. 2051 c.c., ma quella diversa, e generale, dell’art. 2043 c.c., meno favorevole per il danneggiato.
La Corte d’Appello, in secondo grado, ha applicato l’art. 2051 c.c., ma ha negato il risarcimento, sostenendo che:
       -  i danneggiati non avevano dato la dimostrazione del rapporto di causalità tra la cosa (la strada) e il sinistro, dato che la transenna, pur rovesciata, avrebbe potuto, secondo la Corte, essere avvistata in anticipo, e dato che non era dimostrato che l’eventuale segnalazione con luce rossa del tombino malfermo avrebbe evitato l’incidente;
    -con riferimento al manto stradale, la Corte d’Appello ne attesta lo stato di grave dissesto, ma, tuttavia, avendo accertato che il medesimo era tale da molto tempo, ha affermato che il conducente del motociclo, conoscendo il tratto di strada, aveva compiuto con assoluta imprudenza e con grave colpa la manovra di sorpasso, impegnando il tratto fortemente dissestato.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza citata, afferma che la Corte di Appello ha errato nel negare il risarcimento del danno ai congiunti, in quanto:
- la responsabilità ex art. 2051 c.c. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa (Cass. n. 15761/2016);
- ad integrare la responsabilità è necessario (e sufficiente) che il danno sia stato "cagionato" dalla cosa in custodia, assumendo rilevanza il solo dato oggettivo della derivazione causale del danno dalla cosa, mentre non occorre accertare se il custode sia stato o meno diligente nell'esercizio del suo potere sul bene, giacché il profilo della condotta del custode è del tutto estraneo al paradigma della responsabilità delineata dall'art. 2051 c.c.;
- ne consegue che il danneggiato ha il solo onere di provare l'esistenza di un idoneo nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre al custode spetta di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, nel cui ambito possono essere compresi, oltre al fatto naturale, anche quello del terzo e quello dello stesso danneggiato;
- si tratta, dunque, di un'ipotesi di responsabilità oggettiva, con possibilità di prova liberatoria, nel cui ambito il caso fortuito interviene come elemento idoneo ad elidere il nesso causale altrimenti esistente fra la cosa e il danno;
- non può escludersi, invero, che un'eventuale colpa venga fatta specificamente valere dal danneggiato, ma, trattandosi di azione ex art. 2051 c.c., la deduzione di omissioni o violazioni di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode può essere diretta soltanto a rafforzare la prova dello stato della cosa e della sua attitudine a recare danno, sempre ai fini dell'allegazione e della prova del rapporto causale tra la prima e il secondo; né è da escludere che, viceversa, sia il custode a dedurre la conformità della cosa agli obblighi di legge o a prescrizioni tecniche o a criteri di comune prudenza al fine di escludere l'attitudine della cosa a produrre il danno: in entrambi i casi si tratta di deduzioni volte a sostenere oppure a negare la derivazione del danno dalla cosa e non, invece, a riconoscere rilevanza al profilo della condotta del custode.
- resta dunque fermo che, prospettato e provato, dal danneggiato, il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l'assenza di colpa del custode rimane del tutto irrilevante ai fini dell'affermazione della sua responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c.
- Il caso fortuito può essere integrato dalla stessa condotta del danneggiato (che abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) quando essa si sovrapponga alla cosa al punto da farla recedere a mera occasione o "teatro" della vicenda produttiva di danno, assumendo efficacia causale autonoma e sufficiente per la determinazione dell'evento lesivo, così da escludere qualunque rilevanza alla situazione preesistente;


La Corte afferma poi, esplicitamente, che caso fortuito esimente l’Ente Pubblico dalla responsabilità può essere una modifica repentina della strada stessa causata da fatti esterni, come il rilascio di una macchia d’olio da un veicolo, o una pioggia eccezionale: questi sono esempi di caso fortuito esimente, in quanto, data la modificazione repentina della strada, l’Ente non ha il tempo materiale per provvedere a porre tempestivo rimedio. Tuttavia, il permanere nel tempo della situazione eccezionale (ad esempio, una macchia d’olio lasciata sull’asfalto per un intero giorno) non giustifica più l’Ente gestore della strada, il quale avrebbe potuto, e dovuto, rimediare alla insidia.

La Corte di Cassazione annulla, quindi, la sentenza della Corte d’Appello, e rinvia alla medesima per una nuova pronuncia, sottolineando la contraddittorietà della decisione, che da un lato aveva riconosciuto lo stato di grave dissesto della strada, e, dall’altro, ha rifiutato il risarcimento sostenendo la assoluta negligenza del de cuius. Invero, nel caso di specie, sostiene la Cassazione, non si poteva assolutamente applicare il principio secondo cui la colpa del danneggiato esclude il diritto al risarcimento: ciò che non può darsi, evidentemente, quando - come nel caso esaminato dalla Corte - l'evento dannoso si sia verificato "all'interno" di una situazione di macroscopica insidiosità della cosa (dalla sentenza di di appello emerge che il tratto di asfalto dissestato e interessato da profonde solcature era esteso per ben 35 metri, con un'ampiezza che variava da 2 metri - a valle - a 40 centimetri a monte, in prossimità del tombino e della transenna rovesciata), ove non emerga che tale situazione sia stata del tutto ininfluente nel determinismo dell'evento, ossia - nella specie - che il sinistro si sarebbe verificato egualmente, quale effetto della imprudente condotta di guida, anche se la strada si fosse presentata in condizioni di normalità (priva di sconnessioni dell'asfalto, di un tombino non segnalato e di una transenna rovesciata a terra).

La seconda decisione della Cassazione del 2018, la Ordinanza n. 2481 della III Sezione Civile, è interessante in quanto ribadisce gli stessi principi concernenti il risarcimento del danno derivante da cose in custodia di cui alla Sentenza n. 2479. Tuttavia, rigetta il ricorso del danneggiato, soffermandosi sulla qualificazione del comportamento colposo di quest’ultimo come causa escludente il risarcimento.

Trattasi di gravi lesioni di un soggetto che, percorrendo a piedi un tratto di pavimentazione stradale in cui vi sono grossi ciottoli, al fine di eseguire l'attraversamento della strada e raggiungere il lato opposto, cade a terra a causa della rotazione di uno dei ciottoli.

Il Tribunale nega il risarcimento alla persona osservando che il selciato su cui era caduta la signora costituiva un canale di scolo delle acque dal fondo irregolare e con doppia inclinazione, il cui passaggio era "intuitivamente pericoloso" perché ne era ben percepibile la conformazione e "il pericolo che i sassi si muovono se ci transita sopra"; ritiene, quindi, che l'attrice danneggiata, avendo deciso di scendere dall'ampio marciapiede e di transitare sopra detto selciato senza utilizzare gli appositi attraversamenti, non avesse proceduto con la cautela che la condizione dei luoghi richiedeva, non valutando "correttamente... la difficoltà del passaggio, che è pure era evidente" e così riponendo "un affidamento soggettivo, a dir poco, anomalo sulle sue caratteristiche", adottando, dunque, un comportamento tale da interrompere "il nesso causale tra obbligo di custodia e l'evento dannoso lamentato".

La Corte di Appello dichiara inammissibile l’impugnazione della signora.
La Corte di Cassazione conferma la negazione del diritto al risarcimento del danno, qualificando il comportamento colposo della attrice come caso fortuito.
La Corte afferma che il caso fortuito può essere rappresentato anche dalla condotta del danneggiato, ed è connotato dall'esclusiva efficienza causale nella produzione dell'evento; a tal fine, la condotta del danneggiato deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 della Costituzione. Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, il comportamento imprudente di quest’ultimo può essere tale da far venire meno il diritto al risarcimento.
La Corte sostiene che il Tribunale ha valutato la condotta della danneggiata in base alle risultanze probatorie acquisite e l'ha ritenuta connotata da peculiare imprudenza, tale da integrare ipotesi di caso fortuito idoneo a recidere il nesso causale tra la cosa e il danno. A fronte di una situazione della cosa accertata come obiettivamente pericolosa (selciato che costituiva un canale di scolo delle acque dal fondo irregolare e con doppia inclinazione) l'utente della strada era, infatti, tenuto, secondo la Corte, ad un uso prudente e secondo le cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze (che consentivano anche agevoli percorsi alternativi); comportamento, questo, che, invece, non è stato adottato dalla signora.

In sintesi: al fine di ottenere il risarcimento, l’utente della strada cosa deve fare e provare?
1) il danneggiato ha soltanto l’onere di dimostrare l’accadimento del fatto (ad esempio che effettivamente si trovava in quel luogo a quell’ora, che percorreva quella strada, che effettivamente ha subito dei danni etc.);
2) il danneggiato deve poi dimostrare che i danni siano stati causati dalla strada (ad esempio che sia uscito di strada mentre la percorreva senza che altro accadesse, come ad esempio un veicolo che tamponi l’auto del danneggiato, per ubriachezza del conducente, e lo faccia finire fuori strada);
3) l’utente non deve versare in una colpa talmente grande, che da sola ha causato il danno (ad esempio soggetto che percorre una strada dissestata nella quale era segnalato divieto di transito).

Se sei stato vittima anche tu di un incidente a causa della cattiva manutenzione della strada pubblica, puoi scrivere a: studiolegale@dirittissimo.com

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mercoledì 17 luglio 2019



CONTRATTO DI LEASING: QUALI PARTICOLARITA’?

Il contratto di leasing è una forma particolare di contratto di locazione : consente ad un determinato soggetto, di utilizzare un bene a fronte del pagamento di un canone mensile. La particolarità del leasing sta nella possibilità, al termine del contratto, di riscattare il bene oggetto dello stesso: l’utilizzatore infatti può scegliere di restituire il bene al proprietario oppure acquistarlo, pagando una somma predeterminata al momento della stipula del contratto.
Anche dal punto di vista livello fiscale, il contratto di leasing presenta diversi vantaggi, poiché è soggetto a regimi fiscali agevolati e consente, nel caso per esempio di automobili o di macchinari ad uso industriale, di sostituirli spesso.
Cosa accade se l’utilizzatore non ha più interesse nei confronti del bene oggetto di leasing?
In tali casi, è prevista la possibilità di subentro nel contratto di leasing (tramite un accordo avente precisi requisiti giuridici tra concedente – utilizzatore e subentrante) ovvero, il subentrante sostituisce il precedente utilizzatore e ne acquista stessi diritti e stessi doveri. Allo stesso modo il subentrante può acquisire la proprietà del bene oggetto di leasing alla fine della locazione.
Tale tipo di subentro non avviene però a titolo gratuito: di norma il subentrante dovrà pagare una somma pari al valore nominale del bene oggetto del contratto, decurtato dei canoni mensili ancora da pagare e della somma finale prevista per l’eventuale riscatto del bene.
Differenze tra leasing e noleggio auto a lungo termine
Sono due forme distinte di contratti che si differenziano per il fatto che il noleggio a lungo termine non dà la possibilità di acquisire la proprietà del bene al termine della locazione. Inoltre, rispetto al leasing, non è previsto il pagamento di costi iniziali da sostenere né maxi rata finale.
Si pagherà la rata mensile comprensiva anche di costi di assicurazione e manutenzione , la tassa di proprietà ed il soccorso stradale oltre che una serie di altri servizi non compresi nel contratto di leasing.
Esiste anche il LEASING IMMOBILIARE, specialmente dopo il 2015 è diventato molto utilizzato nel mercato immobiliare.
Per i contratti stipulati dal 1 gennaio 2016 al 21 Dicembre 2020 è possibile detrarre i costi  del leasing per la prima casa.
Con il leasing immobiliare la società di leasing si assume l’obbligo di acquistare un immobile o di farlo costruire, seguendo le indicazioni dell’utilizzatore che paga un canone periodico e lo utilizza per un determinato periodo di tempo. Alla scadenza di tale contratto poi l’utilizzatore potrà decidere se riscattare o meno l’immobile pagando il corrispettivo nel contratto.
Esistono poi altre forme di leasing, finanziario, lease back e ciascun contratto presenta le sue particolarità.
Per maggiori informazioni sul Tuo contratto di leasing, scrivi a studiolegale@dirittissimo.com 

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lunedì 20 maggio 2019


RAPPORTO  INQUILINO – PROPRIETARIO QUALI TUTELE?
Quali tutele per il proprietario se un inquilino ha danneggiato la casa che gli abbiamo dato in locazione?
Come bisogna comportarsi di fronte ad un inquilino che, oltre a non pagare le mensilità pattuite, ha danneggiato parti fondamentali della casa?
Ex art. 1590 c.c. un inquilino ha il dovere di restituire la cosa locata nelle medesime condizioni nelle quali gli è stata consegnata, salvo ovviamente il normale deperimento dovuto al trascorrere del tempo e all’usura.
Il conduttore deve restituire la cosa al locatore nello stato medesimo in cui l’ha ricevuta, in conformità della descrizione che ne sia stata fatta dalle parti, salvo il deterioramento o il consumo risultante dall’uso della cosa in conformità del contratto.
Esistono degli accorgimenti a tutela del proprietario che permettono di prevenire eventuali danni, per esempio, al momento della stipula del contratto di locazione, è opportuno fare una sorta di verbale di consegna, in cui si descrive lo stato dell’immobile e gli eventuali difetti già presenti.
Se tale verbale non è stato fatto, si presume che l’immobile fosse in buono stato.
Per quanto riguarda la casa danneggiata, abbiamo visto che l’inquilino è pienamente responsabile, a meno che non riesca a dimostrare che i danni siano stati provocati da caso fortuito o comunque che non dipendano da una sua responsabilità.
E’ possibile procedere con un’azione legale volta ad ottenere il risarcimento dei danni patiti, il cui ammontare comprenderà sia le spese che sarà necessario sostenere per le riparazioni, sia il cosiddetto lucro cessante, ovvero il mancato guadagno dovuti all’impossibilità di locare nuovamente l’immobile nell’attesa che terminino i lavori di riparazione.

E’ bene sapere che incombe al locatore, che i danni pretende, fornire la prova del fatto costitutivo del vantato diritto, e cioè il deterioramento intervenuto tra il momento della consegna e quello della restituzione dell’immobile, essendo quindi onere del conduttore dimostrare il fatto impeditivo della sua responsabilità, che il deterioramento si è verificato per uso conforme al contratto o per fatto a lui non imputabile.

Per quanto riguarda le mensilità non pagate, è possibile procedere con una procedura giudiziale di sfratto per morosità che consente di adire l’autorità giudiziaria per ottenere il pagamento delle mensilità e lo sfratto del conduttore dall’immobile locato.

Per maggiori informazioni scrivere a: studiolegale@dirittissimo.com

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lunedì 13 maggio 2019

IL RISCHIO DELLO STRESS DA LAVORO

Individuare i sintomi di stress da lavoro è una delle forme di prevenzione in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro secondo il vigente quadro normativo, costituito dal decreto legislativo 81/2008 (Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) e successive modifiche e integrazioni.
Il testo unico, ha specificamente individuato lo “stress lavoro-correlato” come uno dei rischi oggetto, sia di valutazione che di gestione e in applicazione all’Accordo europeo sullo stress sul lavoro dell’8 ottobre 2004 ha demandato alla Commissione Consultiva permanente per la salute e la sicurezza del lavoro il compito di «elaborare le indicazioni necessarie alla valutazione del rischio stress lavoro-correlato».
Fondamentale osservare che il Dlgs 81/2008, tra le definizioni contenute nell’articolo 2, comma 1, lettera o), recepisce la definizione, data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, del concetto di “salute” intesa quale «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità».
Con il Dlgs 81/2008 viene quindi introdotta una visione più ampia della prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro secondo i principi definiti della “Responsabilità Sociale.
Tra i più generici sintomi dovuti a condizioni di stress da lavoro si possono menzionare, oltre a un diffuso malessere psicofisico , stanchezza, dolori muscolari, calo delle difese immunitarie e quindi maggiore propensione ad ammalarsi, iperattività, depressione e ansia, irritabilità , problemi all’apparato digerente , incapacità di esprimersi correttamente .
Le fonti di stress negli ambienti di lavoro sono generalmente ricondotte a due categorie : quella inerente il contesto lavorativo e quella inerente, invece, le attività di lavoro .
In entrambi le situazioni i sintomi sono i medesimi e il rischio di incidente lavorativo può essere anche grave .
Lo stress lavoro-correlato produce effetti negativi non solo sul lavoratore ma anche sull’azienda.
Si pensi non solo alla produttività del lavoratore in termini quantitativi ma anche alla possibilità di errori produttivi, incidenti causati da errore umano, assenze per malattie nonché eventuali problematiche di tipo legale.
Il percorso di valutazione
Questi elementi comportano direttamente o indirettamente degli oneri economici in capo all’azienda che possono essere sensibilmente ridotti applicando un percorso di valutazione dello stress lavoro-correlato e trattandolo a tutti gli effetti come un rischio lavorativo da prevenire ed eliminare.
La valutazione in discorso deve essere efficace e non solo formale e deve essere anche fattiva e tendere a essere oggettivamente risolutrice delle problematiche emerse.  
Il Dlgs 81/2008 ha introdotto l’obbligo di valutazione del rischio stress lavoro-correlato da parte dei datori di lavoro (articolo 28, comma 1-bis).
L’obbligo di valutazione di questo rischio e, alla stessa stregua di tutti gli altri rischi, è sanzionato dall’articolo 55, comma 1, lettera a) (violazione dell’articolo 29, comma 1, relativo alla valutazione dei rischi ed elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi - DVR).
L’Accordo Europeo dell’ottobre 2004 definisce lo stress lavoro correlato come «stress intrinsecamente derivante dal lavoro ossia dall’attività lavorativa svolta; è l’insieme di reazioni, fisiche ed emotive, dannose che si manifestano quando le prestazioni richieste sul lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore».
Sono invece escluse dalla definizione di stress da lavoro correlato le situazioni nelle quali si riscontra una volontà di ledere la dignità del lavoratore (ad esempio mobbing, straining, ecc.) nonostante si potrebbero comunque avere effetti del tutto simili.
Un ruolo di primo piano è assegnato allo studio dell’organizzazione del lavoro, concretizzato nell’inserimento all’articolo 15, comma 1, lettera d), del Dlgs 81/2008, del «rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro» che significa che nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione si deve tenere in conto di evitare il lavoro monotono e ripetitivo che può avere effetti negativi sulla salute in termini di stress.
L’articolo 32, comma 2, del Dlgs 81/2008 sottolinea che la formazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (Rspp) deve riguardare anche i rischi «di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato».
Le modalità di valutazione del rischio sono indicate dalla “Commissione Consultiva Permanente per la Salute e Sicurezza sul Lavoro” (articolo 6, comma 8, lettera m-quater), del Dlgs 81/2008), emanate tramite la circolare ministero del Lavoro del 18 novembre 2010, che in sintesi ritiene che non si possono fare indagini di tipo soggettivo (ovvero basate su questionari) se prima non si analizza il fenomeno rischio Stress da Lavoro correlato sulla base di dati oggettivi, complessivi e quantitativi dei cosiddetti “eventi sentinella” (assenze per malattia - escluse maternità, allattamento, congedi parentali - indisposizioni, assenze per infortunio, età anagrafica media, turn-over del personale, numero di richieste di trasferimento).
Le linee guida
Prima dell’emanazione delle indicazioni da parte della Commissione consultiva permanente, molti degli enti che operano in seno a detta commissione (formata dalle organizzazioni datoriali, sindacali, dall’Inail, dalle regioni, dai Ministeri competenti) hanno autonomamente emesso proprie linee guida.
A tale riguardo si deve fare menzione del fatto che il Dipartimento Medicina del Lavoro dell’Inail - ex Ispesl - ha redatto un manuale d’uso con delle Linee Guida in materia di requisiti e standard in tema di salubrità dei luoghi in cui si svolge l’attività lavorativa ai sensi del decreto legislativo 81/2008.
Il Dipartimento medicina del lavoro è partito di base dalle indicazioni della Commissione consultiva integrandolo e ha scelto di definire un percorso metodologico basato sul Modello già approntato nella realtà Britannica e basato sull’ “Indicator tool” (“questionario-strumento indicatore”) coinvolgendo più di 75 aziende afferenti a diversi settori produttivi e più di 6.300 lavoratori.
Per riportare succintamente il metodo di accertamento indicato dalla Commissione consultiva per la verifica dei fattori stressanti si prevede come primo approccio una “valutazione preliminare” e una “valutazione approfondita”.
Nella valutazione preliminare si deve effettuare la rilevazione, di «indicatori di rischio da stress lavoro correlato oggettivi e verificabili e ove possibile numericamente apprezzabili», individuati dalla Commissione consultiva, appartenenti “quanto meno” a tre famiglie distinte:
1) Eventi sentinella:
·         le assenze dal lavoro;
·         le assenze per malattia;
·         le ferie non godute;
·         gli indici infortunistici;
·         i procedimenti/sanzioni disciplinari;
·         istanze giudiziarie;
·         le segnalazioni del medico competente;
·         le lamentele formalizzate da parte dei lavoratori;
2) Fattori di contenuto del lavoro;
·         ambiente di lavoro e attrezzature da lavoro;
·         carichi e ritmi di lavoro;
·         orario di lavoro e turni;
·         corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e i requisiti professionali richiesti;
·         ambiente e attrezzature di lavoro;
3) Fattori di contesto del lavoro:
·         ruolo nell’ambito dell’organizzazione;
·         autonomia decisionale e controllo;
·         conflitti interpersonali al lavoro;
·         evoluzione e sviluppo di carriera.
Se dalla valutazione preliminare non emergono elementi di rischio da stress lavoro-correlato il risultato è riportato nel Documento di Valutazione dei rischi (DVR) prevedendo un piano di monitoraggio per il periodo successivo.
Nel caso in cui invece emergano elementi di rischio si procede alla pianificazione e alla adozione degli opportuni interventi correttivi e nel caso in cui questi ultimi si rilevino “inefficaci”, si deve passare alla “valutazione approfondita”.
Gli strumenti per la valutazione sono a titolo esemplificativo:
· questionari,
· focus group,
· interviste.
Per le imprese fino a 5 lavoratori, il datore di lavoro può scegliere di utilizzare modalità di valutazione diverse quali riunioni a patto che garantiscano comunque il coinvolgimento diretto dei lavoratori nella ricerca delle soluzioni e nella verifica della loro efficacia.
In definitiva le indicazioni della Commissione consultiva pongono il datore di lavoro e le figure della prevenzione quali chiari destinatari della valutazione del rischio da stress lavoro-correlato ma richiedono anche un coinvolgimento e una partecipazione attiva dei lavoratori.
I risultati ottenuti dalla fase preliminare e dalla eventuale fase approfondita, devono essere oggetto della pianificazione e analisi al fine di permettere al datore di lavoro l’adozione delle eventuali misure correttive necessarie all’eliminazione/riduzione del rischio e del relativo piano di monitoraggio.
Si ritiene utile menzionare che ai sensi dell’articolo 25, comma 1, del Dlgs 81/2008 il medico competente ha l’obbligo, di collaborare al processo di valutazione dei rischi compreso il rischio da stress lavoro-correlato con un ruolo partecipativo attivo.
Il medico competente può aiutare nell’individuazione dei gruppi omogenei di lavoratori per l’effettuazione della valutazione e, ancor di più, nella caratterizzazione di specifici eventi sentinella e di specifici fattori di contesto e di contenuto del lavoro.
Allo stesso modo può aiutare nell’interpretazione dei risultati della fase preliminare della valutazione e in ragione delle proprie funzioni e competenze può venire a conoscenza di situazioni di comportamenti di singoli o gruppi di lavoratori o di situazioni di disagio che possono essere fondamentali per la valutazione dei fattori stressanti sul luogo di lavoro.
È da rilevare peraltro che sebbene il processo di valutazione del rischio da stress lavoro-correlato porti a risultati negativi il medico competente potrebbe rilevare singole criticità per determinati lavoratori e in tale contesto sarà fondamentale l’apporto di questa figura nella gestione di tali casi.
Proprio in tale ottica si ritiene fondamentale un’adeguata informativa ai lavoratori per illustrare loro la possibilità di rivolgersi al Medico competente anche attraverso la richiesta di visita medica ex articolo 41, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 81 del 2008.
Se ritieni di essere in una situazione di stress causata dall'ambiente del tuo luogo di lavoro, puoi contattarci scrivendo a: studiolegale@dirittissimo.com, oppure contattando il 328.2408154.

www.dirittissimo.com - sezione lavoro

mercoledì 17 aprile 2019


PROTOCOLLI D’INTESA: STOP ALLE LITI TRA CONIUGI PER LE SPESE
Le spese straordinarie sono sempre state un argomento di conflittualità per le coppie separate e divorziate in quanto ogni soggetto coinvolto tentava, come si suol dire, di tirare l’acqua al proprio mulino.
Oltre a ciò si consideri che i Giudici chiamati a dirimere le questioni loro sottoposte spesso decidevano in maniera diversa casi simili.
Per dirimere tali controversie, diversi Tribunali italiani, come rende noto l’Avv. Luca Avaldi esperto in diritto di famiglia, tra il 2014 ed il 2015, hanno sottoscritto con i Consigli dell’Ordine degli Avvocati dei c.d “protocolli d’intesa” con i quali hanno codificato le spese che possono essere definite straordinarie e, tra queste, quali possano essere effettuate senza preventivo accordo dei genitori e quali invece richiedano il preventivo accordo dei genitori.
Prima dell’introduzione dei suddetti protocolli molti genitori chiedevano all’altro che gli rimborsasse, quali spese straordinarie, ogni acquisto che effettuavano (mensa scolastica, vestiario, giochi ecc.), in alcune occasioni senza documentare l’acquisto e di sovente con la pretesa che il rimborso venisse effettuato il giorno successivo alla comunicazione.
L’introduzione dei suddetti protocolli d’intesa ha fatto chiarezza su diversi aspetti relativi alla ripartizione delle spese tra coniugi, stabilendo ad esempio che le spese per la mensa, salvo diverso accordo dei genitori, non rientrano tra le spese straordinarie che il genitore deve rimborsare all’altro. I protocolli prevedono inoltre che il 50% delle spese straordinarie sostenute da uno dei genitori, devono essergli  rimborsate entro 15 giorni dalla richiesta documentata e che non tutte le spese straordinarie devono essere necessariamente concordate dai genitori, lasciando a ciascuno uno minimo di autonomia.
Non tutto è risolto ma i protocolli d’intesa hanno agevolato gli avvocati e diminuito la conflittualità tra i genitori che hanno scelto di dividersi.

Se vuoi esporre la Tua questione di diritto di famiglia, scrivi a: studiolegale@dirittissimo.com 


Avv. Luca Avaldi

martedì 9 aprile 2019


ATTENZIONE ALLE COMUNICAZIONI DELL’INPS RELATIVE ALLE SOMME CORRISPOSTE IN MANIERA ERRONEA


Non di rado, molti pensionati ricevono comunicazioni dell’INPS circa somme corrisposte in maniera erronea sulla pensione.
Si tratta di un fenomeno molto frequente nel rapporto tra Inps e pensionati, quello dell’erogazione di somme di pensione maggiori di quelle spettanti e nella maggior parte dei casi il cittadino non sa nemmeno il perché gli abbiamo corrisposto una cifra maggiore di quella che gli spettava e si trova così ad essere un debitore senza colpe.
E’ quel che è successo ad una signora che si è rivolta ad un avvocato previdenziale, poiché, da un giorno all’altro, si è vista arrivare una comunicazione in cui l’Inps le chiedeva la restituzione di ben Euro 14.000,00 con la motivazione di un errore nel calcolo della pensione comunicando che da un certo giorno, avrebbe iniziato a trattenere parte della pensione residua come rata del debito.

Che fare in tali casi?

E’ bene sapere che la Cassazione (con sentenza del gennaio 2017) si è espressa per far fronte a tali situazioni purtroppo non infrequenti, affermando che L'ente erogatore, l’Inps, può rettificare in ogni momento le pensioni per via di errori di qualsiasi natura, ma non può recuperare le somme già corrisposte, a meno che l'indebita prestazione sia dipesa dal dolo dell'interessato.

La Cassazione fa riferimento ad un principio generale di irripetibilità delle pensioni secondo cui "le pensioni possono essere in ogni momento rettificate dagli enti erogatori in caso di errore di qualsiasi natura commesso in sede di attribuzione o di erogazione della pensione, ma non si fa luogo al recupero delle somme corrisposte, salvo che l'indebita prestazione sia dovuta a dolo dell'interessato”, ipotesi, peraltro, assai improbabile o difficile da dimostrare.

Si tratta di una pronuncia che cerca di porre rimedio ad un fenomeno molto frequente nel rapporto tra Inps e pensionati.

…..(la Cassazione sezione lavoro è n. 482/2017)

Se anche tu hai ricevuto una comunicazione di tal genere, contatta un nostro avvocato previdenziale per accertare che la richiesta da parte dell’Inps sia legittima, prima di accettare di restituire la somma richiesta.

Per info e contatti: studiolegale@dirittissimo.com  

visita: www.dirittissimo.com - sezione previdenziale

Avv. Luca Canevari