mercoledì 20 marzo 2019




5 CONSIGLI PER RECUPERARE LO STIPENDIO SE IL DATORE DI LAVORO NON PAGA LA BUSTA

Spesso i lavoratori si ritrovano a dover  “fare i conti” con la crisi dell’azienda e a non ricevere gli stipendi concordati. Questi, infatti, vengono sospesi, ridotti e a volte non pagati.
Che fare, allora, in questi casi? In molti si rivolgono, in prima battuta, al sindacato.
E, purtroppo, neanche in questo caso riescono ad ottenere sempre giustizia.
Così non resta che rivolgersi all’avvocato del lavoro.

L’avvocato del lavoro cerca di raggiungere soluzioni bonarie che possano evitare il giudizio, per poi ricorrere al giudice quando proprio ha tentato tutte le carte.

Cosa, allora, potrebbe consigliarvi il vostro legale di fiducia, per recuperare lo stipendio non pagato?

Dopo un'attenta analisi della Vostra situazione, esistono vari passaggi che il Vostro avvocato del lavoro può esperire per poter recuperare gli stipendi che vantate.
Di seguito le spiegazioni delle singole fasi.
1)    La diffida
Di sicuro, un atteggiamento inizialmente collaborativo può essere una scelta vincente, specie con le aziende che hanno una momentanea crisi di liquidità.
La lettera di sollecito (anche detta “messa in mora” o “diffida”) serve anche a interrompere i termini della prescrizione. La lettera viene redatta dall’avvocato del Lavoro e in essa è sempre meglio quantificare con esattezza l’importo dovuto, quanto meno indicando le mensilità e gli altri emolumenti che non sono stati pagati.
Se poi il conteggio è complesso, e include anche rivendicazioni di straordinari e permessi non retribuiti, meglio farsi redigere un conteggio analitico da un consulente del lavoro (documento che, eventualmente, potrà anche essere allegato alla lettera di diffida).
2)    La conciliazione alla DTL

La Direzione Territoriale del Lavoro è un organo che si trova in tutte le province (ha infatti sostituito la vecchia DPL, Direzione Provinciale del Lavoro). Tra i suoi compiti vi è quello di svolgere dei tentativi di conciliazione tra lavoratori e datore di lavoro (tentativi che, una volta, dovevano essere esperiti obbligatoriamente prima di fare la causa in tribunale; oggi invece sono liberi e volontari).
Il tentativo di conciliazione, che si svolge davanti a un avvocato del Lavoro e uno dell’azienda, con un presidente della commissione, è gratuito e relativamente breve (tutto si svolge in una udienza o al massimo due). A seconda del carico di lavoro dell’ufficio, la convocazione delle parti viene effettuata a distanza di poche settimane dalla richiesta.
Su richiesta dell’Avvocato del lavoro, la DTL comunicherà poi alle parti la data dell’incontro. In tale sede, il mancato raggiungimento dell’accordo non ha alcuna ripercussione né sanzione per entrambe le parti. Al contrario, il verbale di accordo diventa titolo esecutivo e consente al lavoratore – in caso di inadempimento del datore – di andare direttamente dall’ufficiale giudiziario per il pignoramento (previa notifica dell’atto di precetto). Ma per questo è necessario comunque valersi di un avvocato che spiegherà meglio la procedura.
3) La negoziazione assistita
Lo strumento è stato appena inserito dalla nuova riforma della giustizia e richiede la presenza degli avvocati del lavoro di entrambe le parti. Anch’esso è un sistema di risoluzione stragiudiziale della controversia, che mira a tentare un accordo bonario tra le parti.

4) Tentativo di conciliazione monocratico
Sempre presso la DTL il lavoratore può chiedere l’intervento di un ispettore che verifichi se il datore è in regola con le norme lavoristiche e contributive. Come lo strumento della conciliazione, anche questo è volontario, facoltativo.
A differenza dell’altro tentativo di conciliazione in DTL, in tal caso, se non si raggiunge l’accordo, scatta una verifica presso la sede del datore per accertare (con acquisizione di documentazione e testimonianze) se il rapporto di impiego si è svolto correttamente o meno. E, in quest’ultimo caso, potrebbero essere comminate all’azienda sanzioni particolarmente rilevanti.

5) Ricorso in Tribunale
Il ricorso al Tribunale del lavoro è sicuramente l’ultima strada da considerare: sia per i tempi che comporta, sia per i costi, sia soprattutto per la forte conflittualità che si potrebbe creare tra le parti in causa.
Tuttavia, se l’azienda è a rischio insolvenza e, quindi, in procinto di fallimento, forse è meglio non aspettare e procedere subito con la via giudiziale: in tal modo vi procurereste subito un titolo da spendere poi, in caso di fallimento, innanzi al giudice delegato e ottenere più velocemente il pagamento.

Se vi trovate in una situazione analoga a quella descritta in questo articolo potete rivolgervi ad un avvocato del lavoro dello studio Dirittissimo che Vi consiglierà la strada migliore da percorrere.

Per contatti: dirittissimo@gmail.com 

www.dirittissimo.it  - sezione lavoro

giovedì 14 marzo 2019


IL RISCHIO DELLO STRESS DA LAVORO
Individuare i sintomi di stress da lavoro è una delle forme di prevenzione in materia di sicurezza e salute sui luoghi di lavoro secondo il vigente quadro normativo, costituito dal decreto legislativo 81/2008 (Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro) e successive modifiche e integrazioni.
Il testo unico, ha specificamente individuato lo “stress lavoro-correlato” come uno dei rischi oggetto, sia di valutazione che di gestione e in applicazione all’Accordo europeo sullo stress sul lavoro dell’8 ottobre 2004 ha demandato alla Commissione Consultiva permanente per la salute e la sicurezza del lavoro il compito di «elaborare le indicazioni necessarie alla valutazione del rischio stress lavoro-correlato».
Fondamentale osservare che il Dlgs 81/2008, tra le definizioni contenute nell’articolo 2, comma 1, lettera o), recepisce la definizione, data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, del concetto di “salute” intesa quale «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, non consistente solo in un’assenza di malattia o d’infermità».
Con il Dlgs 81/2008 viene quindi introdotta una visione più ampia della prevenzione della salute e sicurezza sul lavoro secondo i principi definiti della “Responsabilità Sociale.
Tra i più generici sintomi dovuti a condizioni di stress da lavoro si possono menzionare, oltre a un diffuso malessere psicofisico , stanchezza, dolori muscolari, calo delle difese immunitarie e quindi maggiore propensione ad ammalarsi, iperattività, depressione e ansia, irritabilità , problemi all’apparato digerente , incapacità di esprimersi correttamente .
Le fonti di stress negli ambienti di lavoro sono generalmente ricondotte a due categorie : quella inerente il contesto lavorativo e quella inerente, invece, le attività di lavoro .
In entrambi le situazioni i sintomi sono i medesimi e il rischio di incidente lavorativo può essere anche grave .
Lo stress lavoro-correlato produce effetti negativi non solo sul lavoratore ma anche sull’azienda.
Si pensi non solo alla produttività del lavoratore in termini quantitativi ma anche alla possibilità di errori produttivi, incidenti causati da errore umano, assenze per malattie nonché eventuali problematiche di tipo legale.
Il percorso di valutazione
Questi elementi comportano direttamente o indirettamente degli oneri economici in capo all’azienda che possono essere sensibilmente ridotti applicando un percorso di valutazione dello stress lavoro-correlato e trattandolo a tutti gli effetti come un rischio lavorativo da prevenire ed eliminare.
La valutazione in discorso deve essere efficace e non solo formale e deve essere anche fattiva e tendere a essere oggettivamente risolutrice delle problematiche emerse.  
Il Dlgs 81/2008 ha introdotto l’obbligo di valutazione del rischio stress lavoro-correlato da parte dei datori di lavoro (articolo 28, comma 1-bis).
L’obbligo di valutazione di questo rischio e, alla stessa stregua di tutti gli altri rischi, è sanzionato dall’articolo 55, comma 1, lettera a) (violazione dell’articolo 29, comma 1, relativo alla valutazione dei rischi ed elaborazione del Documento di Valutazione dei Rischi - DVR).
L’Accordo Europeo dell’ottobre 2004 definisce lo stress lavoro correlato come «stress intrinsecamente derivante dal lavoro ossia dall’attività lavorativa svolta; è l’insieme di reazioni, fisiche ed emotive, dannose che si manifestano quando le prestazioni richieste sul lavoro non sono commisurate alle capacità, risorse o esigenze del lavoratore».
Sono invece escluse dalla definizione di stress da lavoro correlato le situazioni nelle quali si riscontra una volontà di ledere la dignità del lavoratore (ad esempio mobbing, straining, ecc.) nonostante si potrebbero comunque avere effetti del tutto simili.
Un ruolo di primo piano è assegnato allo studio dell’organizzazione del lavoro, concretizzato nell’inserimento all’articolo 15, comma 1, lettera d), del Dlgs 81/2008, del «rispetto dei principi ergonomici nell’organizzazione del lavoro» che significa che nella scelta delle attrezzature e nella definizione dei metodi di lavoro e produzione si deve tenere in conto di evitare il lavoro monotono e ripetitivo che può avere effetti negativi sulla salute in termini di stress.
L’articolo 32, comma 2, del Dlgs 81/2008 sottolinea che la formazione del Responsabile del Servizio di Prevenzione e Protezione (Rspp) deve riguardare anche i rischi «di natura ergonomica e da stress lavoro-correlato».
Le modalità di valutazione del rischio sono indicate dalla “Commissione Consultiva Permanente per la Salute e Sicurezza sul Lavoro” (articolo 6, comma 8, lettera m-quater), del Dlgs 81/2008), emanate tramite la circolare ministero del Lavoro del 18 novembre 2010, che in sintesi ritiene che non si possono fare indagini di tipo soggettivo (ovvero basate su questionari) se prima non si analizza il fenomeno rischio Stress da Lavoro correlato sulla base di dati oggettivi, complessivi e quantitativi dei cosiddetti “eventi sentinella” (assenze per malattia - escluse maternità, allattamento, congedi parentali - indisposizioni, assenze per infortunio, età anagrafica media, turn-over del personale, numero di richieste di trasferimento).
Le linee guida
Prima dell’emanazione delle indicazioni da parte della Commissione consultiva permanente, molti degli enti che operano in seno a detta commissione (formata dalle organizzazioni datoriali, sindacali, dall’Inail, dalle regioni, dai Ministeri competenti) hanno autonomamente emesso proprie linee guida.
A tale riguardo si deve fare menzione del fatto che il Dipartimento Medicina del Lavoro dell’Inail - ex Ispesl - ha redatto un manuale d’uso con delle Linee Guida in materia di requisiti e standard in tema di salubrità dei luoghi in cui si svolge l’attività lavorativa ai sensi del decreto legislativo 81/2008.
Il Dipartimento medicina del lavoro è partito di base dalle indicazioni della Commissione consultiva integrandolo e ha scelto di definire un percorso metodologico basato sul Modello già approntato nella realtà Britannica e basato sull’ “Indicator tool” (“questionario-strumento indicatore”) coinvolgendo più di 75 aziende afferenti a diversi settori produttivi e più di 6.300 lavoratori.
Per riportare succintamente il metodo di accertamento indicato dalla Commissione consultiva per la verifica dei fattori stressanti si prevede come primo approccio una “valutazione preliminare” e una “valutazione approfondita”.
Nella valutazione preliminare si deve effettuare la rilevazione, di «indicatori di rischio da stress lavoro correlato oggettivi e verificabili e ove possibile numericamente apprezzabili», individuati dalla Commissione consultiva, appartenenti “quanto meno” a tre famiglie distinte:
1) Eventi sentinella:
·         le assenze dal lavoro;
·         le assenze per malattia;
·         le ferie non godute;
·         gli indici infortunistici;
·         i procedimenti/sanzioni disciplinari;
·         istanze giudiziarie;
·         le segnalazioni del medico competente;
·         le lamentele formalizzate da parte dei lavoratori;
2) Fattori di contenuto del lavoro;
·         ambiente di lavoro e attrezzature da lavoro;
·         carichi e ritmi di lavoro;
·         orario di lavoro e turni;
·         corrispondenza tra le competenze dei lavoratori e i requisiti professionali richiesti;
·         ambiente e attrezzature di lavoro;
3) Fattori di contesto del lavoro:
·         ruolo nell’ambito dell’organizzazione;
·         autonomia decisionale e controllo;
·         conflitti interpersonali al lavoro;
·         evoluzione e sviluppo di carriera.
Se dalla valutazione preliminare non emergono elementi di rischio da stress lavoro-correlato il risultato è riportato nel Documento di Valutazione dei rischi (DVR) prevedendo un piano di monitoraggio per il periodo successivo.
Nel caso in cui invece emergano elementi di rischio si procede alla pianificazione e alla adozione degli opportuni interventi correttivi e nel caso in cui questi ultimi si rilevino “inefficaci”, si deve passare alla “valutazione approfondita”.
Gli strumenti per la valutazione sono a titolo esemplificativo:
· questionari,
· focus group,
· interviste.
Per le imprese fino a 5 lavoratori, il datore di lavoro può scegliere di utilizzare modalità di valutazione diverse quali riunioni a patto che garantiscano comunque il coinvolgimento diretto dei lavoratori nella ricerca delle soluzioni e nella verifica della loro efficacia.
In definitiva le indicazioni della Commissione consultiva pongono il datore di lavoro e le figure della prevenzione quali chiari destinatari della valutazione del rischio da stress lavoro-correlato ma richiedono anche un coinvolgimento e una partecipazione attiva dei lavoratori.
I risultati ottenuti dalla fase preliminare e dalla eventuale fase approfondita, devono essere oggetto della pianificazione e analisi al fine di permettere al datore di lavoro l’adozione delle eventuali misure correttive necessarie all’eliminazione/riduzione del rischio e del relativo piano di monitoraggio.
Si ritiene utile menzionare che ai sensi dell’articolo 25, comma 1, del Dlgs 81/2008 il medico competente ha l’obbligo, di collaborare al processo di valutazione dei rischi compreso il rischio da stress lavoro-correlato con un ruolo partecipativo attivo.
Il medico competente può aiutare nell’individuazione dei gruppi omogenei di lavoratori per l’effettuazione della valutazione e, ancor di più, nella caratterizzazione di specifici eventi sentinella e di specifici fattori di contesto e di contenuto del lavoro.
Allo stesso modo può aiutare nell’interpretazione dei risultati della fase preliminare della valutazione e in ragione delle proprie funzioni e competenze può venire a conoscenza di situazioni di comportamenti di singoli o gruppi di lavoratori o di situazioni di disagio che possono essere fondamentali per la valutazione dei fattori stressanti sul luogo di lavoro.
È da rilevare peraltro che sebbene il processo di valutazione del rischio da stress lavoro-correlato porti a risultati negativi il medico competente potrebbe rilevare singole criticità per determinati lavoratori e in tale contesto sarà fondamentale l’apporto di questa figura nella gestione di tali casi.
Proprio in tale ottica si ritiene fondamentale un’adeguata informativa ai lavoratori per illustrare loro la possibilità di rivolgersi al Medico competente anche attraverso la richiesta di visita medica ex articolo 41, comma 2, lettera c), del decreto legislativo n. 81 del 2008.
Se ritieni di essere in una situazione di stress causata dall'ambiente del tuo luogo di lavoro, puoi contattarci scrivendo a: studiolegale@dirittissimo.com, oppure contattando il 328.2408154.

www.dirittissimo.com - sezione lavoro
Avv. Luca Canevari

lunedì 4 marzo 2019



Incidenti stradali causati dalla cattiva manutenzione delle strade: quale responsabilità dell’Ente Pubblico? Gli ultimi arresti della Cassazione.

Tema sempre dibattuto nella giurisprudenza dei Tribunali è quello riguardante la responsabilità civile risarcitoria dell’Ente Pubblico proprietario, ovvero gestore, della strada, nei confronti di quei soggetti che (troppo spesso) sono vittime di incidenti stradali causati dalla cattiva manutenzione della via pubblica. L’argomento rimane, purtroppo, ancora di attualità: basti ricordare gli attuali problemi dovuti ai danni alle auto, o ai motocicli, per via delle strade gravemente dissestate nel Comune di Roma Capitale.

Questo articolo intende fare chiarezza su un tema che ha visto, nel corso del tempo, mutare gli orientamenti della Giurisprudenza, la quale, anche al suo vertice, ha dato in alcuni casi risposta affermativa alla domanda risarcitoria, in altri, identici o similari, invece, risposta contraria.

Quali sono, allora, per l’utente della strada pubblica, oggi, i punti fermi ai quali ancorarsi al fine di essere risarcito dall’Ente responsabile della cattiva manutenzione e che abbia causato danni a persone e/o a cose?
In quali casi si ha effettivamente diritto al risarcimento? Con quali limiti?
Cosa occorre provare?
Cosa invece deve provare l’Ente Pubblico (ad esempio, il Comune, ovvero la Provincia ecc.) al fine di andare esente da responsabilità civile?

Due recentissime decisioni della Corte Suprema di Cassazione, entrambe depositate l’1 febbraio 2018, sono particolarmente preziose ai nostri fini, in quanto fanno il punto sul più attuale “stato dell’arte” della materia, ne enucleano i principi fondamentali, e pretendono avere raggiunto uno stabile approdo interpretativo ed applicativo.

Va, innanzitutto, detto che l’utente della strada pubblica, che subisca danni per causa della medesima, trova la propria fondamentale tutela risarcitoria nell’art. 2051 del Codice Civile, il quale afferma: “Ciascuno è responsabile del danno cagionato dalle cose che ha in custodia, salvo che provi il caso fortuito”. La giurisprudenza ha da tempo (correttamente) applicato tale disposizione normativa alle strade pubbliche, in quanto cose custodite dallo Stato o da altro Ente (Comuni, Province, Città Metropolitane, Regioni etc.).

La prima Sentenza, della III Sezione Civile della Cassazione, la n. 2479/2018, riguarda un triste caso di morte di un soggetto, il quale, a causa della presenza di una transenna rovesciata in prossimità di un tombino con coperchio non fissato, ed a causa del pessimo stato del manto stradale (che presentava profonde crepe e scanalature dell’asfalto), aveva perso il controllo del mezzo, ed era stato investito da una vettura proveniente dal lato opposto della carreggiata.
Sia il Tribunale, in primo grado, che la Corte d’Appello in secondo grado, avevano rigettato le domande di risarcimento dei danni da morte del congiunto promosse dai famigliari del deceduto.
Il Tribunale, in primo grado, non aveva, erroneamente, nemmeno applicato la norma dell’art. 2051 c.c., ma quella diversa, e generale, dell’art. 2043 c.c., meno favorevole per il danneggiato.
La Corte d’Appello, in secondo grado, ha applicato l’art. 2051 c.c., ma ha negato il risarcimento, sostenendo che:
1)      i danneggiati non avevano dato la dimostrazione del rapporto di causalità tra la cosa (la strada) e il sinistro, dato che la transenna, pur rovesciata, avrebbe potuto, secondo la Corte, essere avvistata in anticipo, e dato che non era dimostrato che l’eventuale segnalazione con luce rossa del tombino malfermo avrebbe evitato l’incidente;
2)      con riferimento al manto stradale, la Corte d’Appello ne attesta lo stato di grave dissesto, ma, tuttavia, avendo accertato che il medesimo era tale da molto tempo, ha affermato che il conducente del motociclo, conoscendo il tratto di strada, aveva compiuto con assoluta imprudenza e con grave colpa la manovra di sorpasso, impegnando il tratto fortemente dissestato.
La Corte di Cassazione, con la Sentenza citata, afferma che la Corte di Appello ha errato nel negare il risarcimento del danno ai congiunti, in quanto:
- la responsabilità ex art. 2051 c.c. postula la sussistenza di un rapporto di custodia della cosa e una relazione di fatto tra un soggetto e la cosa stessa, tale da consentire il potere di controllarla, di eliminare le situazioni di pericolo che siano insorte e di escludere i terzi dal contatto con la cosa (Cass. n. 15761/2016);
- ad integrare la responsabilità è necessario (e sufficiente) che il danno sia stato "cagionato" dalla cosa in custodia, assumendo rilevanza il solo dato oggettivo della derivazione causale del danno dalla cosa, mentre non occorre accertare se il custode sia stato o meno diligente nell'esercizio del suo potere sul bene, giacché il profilo della condotta del custode è del tutto estraneo al paradigma della responsabilità delineata dall'art. 2051 c.c.;
- ne consegue che il danneggiato ha il solo onere di provare l'esistenza di un idoneo nesso causale tra la cosa ed il danno, mentre al custode spetta di provare che il danno non è stato causato dalla cosa, ma dal caso fortuito, nel cui ambito possono essere compresi, oltre al fatto naturale, anche quello del terzo e quello dello stesso danneggiato;
- si tratta, dunque, di un'ipotesi di responsabilità oggettiva, con possibilità di prova liberatoria, nel cui ambito il caso fortuito interviene come elemento idoneo ad elidere il nesso causale altrimenti esistente fra la cosa e il danno;
- non può escludersi, invero, che un'eventuale colpa venga fatta specificamente valere dal danneggiato, ma, trattandosi di azione ex art. 2051 c.c., la deduzione di omissioni o violazioni di obblighi di legge, di regole tecniche o di criteri di comune prudenza da parte del custode può essere diretta soltanto a rafforzare la prova dello stato della cosa e della sua attitudine a recare danno, sempre ai fini dell'allegazione e della prova del rapporto causale tra la prima e il secondo; né è da escludere che, viceversa, sia il custode a dedurre la conformità della cosa agli obblighi di legge o a prescrizioni tecniche o a criteri di comune prudenza al fine di escludere l'attitudine della cosa a produrre il danno: in entrambi i casi si tratta di deduzioni volte a sostenere oppure a negare la derivazione del danno dalla cosa e non, invece, a riconoscere rilevanza al profilo della condotta del custode.
- resta dunque fermo che, prospettato e provato, dal danneggiato, il nesso causale tra cosa custodita ed evento dannoso, la colpa o l'assenza di colpa del custode rimane del tutto irrilevante ai fini dell'affermazione della sua responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c.
- Il caso fortuito può essere integrato dalla stessa condotta del danneggiato (che abbia usato un bene senza la normale diligenza o con affidamento soggettivo anomalo) quando essa si sovrapponga alla cosa al punto da farla recedere a mera occasione o "teatro" della vicenda produttiva di danno, assumendo efficacia causale autonoma e sufficiente per la determinazione dell'evento lesivo, così da escludere qualunque rilevanza alla situazione preesistente;

La Corte afferma poi, esplicitamente, che caso fortuito esimente l’Ente Pubblico dalla responsabilità può essere una modifica repentina della strada stessa causata da fatti esterni, come il rilascio di una macchia d’olio da un veicolo, o una pioggia eccezionale: questi sono esempi di caso fortuito esimente, in quanto, data la modificazione repentina della strada, l’Ente non ha il tempo materiale per provvedere a porre tempestivo rimedio. Tuttavia, il permanere nel tempo della situazione eccezionale (ad esempio, una macchia d’olio lasciata sull’asfalto per un intero giorno) non giustifica più l’Ente gestore della strada, il quale avrebbe potuto, e dovuto, rimediare alla insidia.

La Corte di Cassazione annulla, quindi, la sentenza della Corte d’Appello, e rinvia alla medesima per una nuova pronuncia, sottolineando la contraddittorietà della decisione, che da un lato aveva riconosciuto lo stato di grave dissesto della strada, e, dall’altro, ha rifiutato il risarcimento sostenendo la assoluta negligenza del de cuius. Invero, nel caso di specie, sostiene la Cassazione, non si poteva assolutamente applicare il principio secondo cui la colpa del danneggiato esclude il diritto al risarcimento: ciò che non può darsi, evidentemente, quando - come nel caso esaminato dalla Corte - l'evento dannoso si sia verificato "all'interno" di una situazione di macroscopica insidiosità della cosa (dalla sentenza di di appello emerge che il tratto di asfalto dissestato e interessato da profonde solcature era esteso per ben 35 metri, con un'ampiezza che variava da 2 metri - a valle - a 40 centimetri a monte, in prossimità del tombino e della transenna rovesciata), ove non emerga che tale situazione sia stata del tutto ininfluente nel determinismo dell'evento, ossia - nella specie - che il sinistro si sarebbe verificato egualmente, quale effetto della imprudente condotta di guida, anche se la strada si fosse presentata in condizioni di normalità (priva di sconnessioni dell'asfalto, di un tombino non segnalato e di una transenna rovesciata a terra).

La seconda decisione della Cassazione del 2018, la Ordinanza n. 2481 della III Sezione Civile, è interessante in quanto ribadisce gli stessi principi concernenti il risarcimento del danno derivante da cose in custodia di cui alla Sentenza n. 2479. Tuttavia, rigetta il ricorso del danneggiato, soffermandosi sulla qualificazione del comportamento colposo di quest’ultimo come causa escludente il risarcimento.

Trattasi di gravi lesioni di un soggetto che, percorrendo a piedi un tratto di pavimentazione stradale in cui vi sono grossi ciottoli, al fine di eseguire l'attraversamento della strada e raggiungere il lato opposto, cade a terra a causa della rotazione di uno dei ciottoli.

Il Tribunale nega il risarcimento alla persona osservando che il selciato su cui era caduta la signora costituiva un canale di scolo delle acque dal fondo irregolare e con doppia inclinazione, il cui passaggio era "intuitivamente pericoloso" perché ne era ben percepibile la conformazione e "il pericolo che i sassi si muovono se ci transita sopra"; ritiene, quindi, che l'attrice danneggiata, avendo deciso di scendere dall'ampio marciapiede e di transitare sopra detto selciato senza utilizzare gli appositi attraversamenti, non avesse proceduto con la cautela che la condizione dei luoghi richiedeva, non valutando "correttamente... la difficoltà del passaggio, che è pure era evidente" e così riponendo "un affidamento soggettivo, a dir poco, anomalo sulle sue caratteristiche", adottando, dunque, un comportamento tale da interrompere "il nesso causale tra obbligo di custodia e l'evento dannoso lamentato".
La Corte di Appello dichiara inammissibile l’impugnazione della signora.

La Corte di Cassazione conferma la negazione del diritto al risarcimento del danno, qualificando il comportamento colposo della attrice come caso fortuito.

La Corte afferma che il caso fortuito può essere rappresentato anche dalla condotta del danneggiato, ed è connotato dall'esclusiva efficienza causale nella produzione dell'evento; a tal fine, la condotta del danneggiato deve essere valutata tenendo anche conto del dovere generale di ragionevole cautela riconducibile al principio di solidarietà espresso dall'art. 2 della Costituzione. Pertanto, quanto più la situazione di possibile danno è suscettibile di essere prevista e superata attraverso l'adozione da parte dello stesso danneggiato delle cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze, il comportamento imprudente di quest’ultimo può essere tale da far venire meno il diritto al risarcimento.

La Corte sostiene che il Tribunale ha valutato la condotta della danneggiata in base alle risultanze probatorie acquisite e l'ha ritenuta connotata da peculiare imprudenza, tale da integrare ipotesi di caso fortuito idoneo a recidere il nesso causale tra la cosa e il danno. A fronte di una situazione della cosa accertata come obiettivamente pericolosa (selciato che costituiva un canale di scolo delle acque dal fondo irregolare e con doppia inclinazione) l'utente della strada era, infatti, tenuto, secondo la Corte, ad un uso prudente e secondo le cautele normalmente attese e prevedibili in rapporto alle circostanze (che consentivano anche agevoli percorsi alternativi); comportamento, questo, che, invece, non è stato adottato dalla signora.

In sintesi: al fine di ottenere il risarcimento, l’utente della strada cosa deve fare e provare?

1) il danneggiato ha soltanto l’onere di dimostrare l’accadimento del fatto (ad esempio che effettivamente si trovava in quel luogo a quell’ora, che percorreva quella strada, che effettivamente ha subito dei danni etc.);
2) il danneggiato deve poi dimostrare che i danni siano stati causati dalla strada (ad esempio che sia uscito di strada mentre la percorreva senza che altro accadesse, come ad esempio un veicolo che tamponi l’auto del danneggiato, per ubriachezza del conducente, e lo faccia finire fuori strada);
3) l’utente non deve versare in una colpa talmente grande, che da sola ha causato il danno (ad esempio soggetto che percorre una strada dissestata nella quale era segnalato divieto di transito).

Se vi è capitato un caso simile, potete scrivere a: studiolegale@dirittissimo.com, per avere assistenza da uno dei nostri avvocati civilisti.

www.dirittissimo.com

Avv. Alessandro Milani