IN QUALI CASI SI PUO’ EFFETTIVAMENTE PARLARE DI MOBBING?
Nel nostro ordinamento non esiste, una definizione normativa di mobbing, abbiamo solo una nozione dottrinale e
giurisprudenziale e questo, senza dubbio,
rende più complicata la sua individuazione.
Esistono alcune pronunce della Corte di Cassazione che definiscono per
esempio il mobbing come “una condotta del datore di lavoro o del superiore
gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del
lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e
reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di
prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la
mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del
suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità” (Cass.
n. 3785/09; nello stesso senso, ex multis, Cass .n. 87 del
10 gennaio 2012; Cass. n. 17698/2014; Cass n. 898/2014; Cass. n. 12437
del 21 maggio 2018).
Dunque, affinchè si configuri il mobbing è necessario
che sussistano più elementi concomitanti tra cui:
1)più condotte messe in atto nei
confronti del lavoratore, protratte nel tempo, poste in essere dal datore di
lavoro o da un suo preposto o da altri dipendenti, sottoposti al potere
direttivo dei primi;
2)una volontà vessatoria
finalizzata alla persecuzione o emarginazione del dipendente;
3)la conseguente lesione
della salute o della personalità del dipendente;
4)il nesso tra la condotta ed
il pregiudizio psico-fisico:
5)la prova dell’elemento
soggettivo, ossia dell’intento persecutorio.
Il dipendente che ritiene di essere stato mobbizzato ha l’onere di provare
non solo le condotte vessatorie, ma anche la volontà persecutoria, nonché il
nesso causale con il danno subito.
L’elemento psicologico ovvero l’intento vessatorio che sta alla base di
tutte le condotte poste in essere dal datore è molto difficile da dimostrare ma
è necessario.
Orientamento giurisprudenziale ormai consolidato ammette, tuttavia, che
tale prova possa essere fornita con l’utilizzo di presunzioni. Quest’ultime
– come sostiene una recente pronuncia della Cassazione (2019) devono essere “gravi, precise e concordanti”.
Non sono dunque sufficienti le semplici asserzioni della lavoratrice che
si era limitata a dedurre che solo a lei – a differenza di altri colleghi- –
era stato impedito di proseguire con la modalità di tele-lavoro notturno.
Anche il Consiglio di Stato, con pronuncia n. 4471 del 1 luglio 2019 della
Sezione 4, ha ribadito che la prova dell’elemento intenzionale e
vessatorio del datore di lavoro può essere fornita dal lavoratore anche in base
alle caratteristiche oggettive dei comportamenti tenuti, e cioè su presunzioni
gravi, precise e concordanti, dai quali è possibile risalire da fatti noti ad
altri ignorati.
Una volta provata la sussistenza del mobbing, il lavoratore deve, poi,
dimostrare di aver subito un pregiudizio specificandone la natura e la
tipologia.
Per fare ciò il lavoratore ha l’onere della prova di dimostrare attraverso
una serie di possibilità quali a titolo esemplificativo ma non esaustivo (sms,
email, testimoni) circostanze concrete che attestino la durata, gravità,
conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata
dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di
progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti
del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli
effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto“.
Sono diversi i pregiudizi che un lavoratore può far valere in giudizio se
in grado di provare in concreto il danno subito: danno professionale, danno
all’integrità psico – fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita
di relazione.
In particolare, segnaliamo che la Cassazione ha ribadito che il danno non
patrimoniale derivante dal demansionamento “… è risarcibile ogni qual
volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i
diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto
alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle
situazioni di disagio professionale e personale, nonché all’inerzia del datore
di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno
specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti” (così Cassazione n.
9901 del 2018 ).
Da non confondere con il mobbing, esiste un’altra
fattispecie non espressamente definita dalla legge, ovvero il DANNO DA
STRESS LAVORO CORRELATO.
Come ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con
la Sentenza n. 5590 del 22 Marzo 2016, il risarcimento del danno da stress
lavoro correlato “si inscrive nella categoria unitaria del danno non
patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la
sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto
dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della relativa
allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici.”
Più precisamente, devono sussistere 3 presupposti affinchè il lavoratore
possa chiedere il risarcimento del danno da stress lavoro correlato:
1)la condotta censurabile del datore di
lavoro;
2)un danno medicalmente accertabile;
3)il nesso di causalità tra la condotta
censurabile e il danno.
Quanto alla condotta del datore di lavoro, il riferimento è all’art. 2087
Cod. Civ. che stabilisce l’obbligo del datore di lavoro di “adottare
nell'esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro,
l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la
personalità morale dei prestatori di lavoro”.
A questo proposito, la Corte di Cassazione chiarisce che “l’obbligo che
scaturisce dall’Art. 2087 non può ritenersi limitato al rispetto della
legislazione tipica della prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il
datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito aziendale, comportamenti che
siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del
lavoratore” (Cass. Civ., Sez. Lav., 02 Maggio 2000 n. 5491).
Da sottolineare che Cassazione ritiene configurabile un danno da stress
lavoro correlato anche qualora il datore ometta di adeguare l’organico
aziendale “il mancato adeguamento dell’organico aziendale (in quanto
e se determinante un eccessivo carico di lavoro), nonché il mancato impedimento
di un superlavoro eccedente – secondo le regole di comune esperienza – la
normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore,
costituisce violazione degli Artt. 41, comma 2, Cost. e 2087 Cod.Civ., e ciò
anche quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore
(estrinsecantesi nell’accettazione di straordinario continuativo – ancorché
contenuto nel cosiddetto monte ore massimo contrattuale – o nella rinuncia a
periodi di ferie), atteso che il comportamento del lavoratore non esime il
datore di lavoro dall’adottare tutte le misure idonee alla tutela
dell’integrità fisico-psichica dei dipendenti, comprese quelle intese ad
evitare l’eccessività di impegno da parte di soggetti in condizioni di
subordinazione socio-economica…”
La responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del
lavoro è comunque sempre in capo all'azienda (quindi al datore) che non può
sottrarsi agli addebiti che possono derivare dagli effetti lesivi di una
inadeguata scansione dei tempi di attività e ha dichiarato il nesso tra
l’infarto e l’impegno lavorativo oltre i limiti della tollerabilità.
Per quanto riguarda i danni che un medico può accertare come correlati ad
una condizione di stress, essi possono essere svariati: malattie a base
organica, come infarti o patologie dell’apparato immunitario o gastrointestinale,
oppure malattie neurologiche e psichiche.
Con una nota Sentenza del 2012, la Suprema Corte di Cassazione
(Cass. Civ., Sez. Lav., 24 Ottobre 2012 n. 18211) ha riconosciuto una
somma risarcitoria, pari a € 25.000,00, ad un portinaio che, a causa dei lunghi
turni di lavoro (dalle 21.00 alle 9.00), riportava una sindrome nevrotico
ansiosa da stress lavorativo.
Secondo una delle ultime pronunce della Corte di Cassazione civile, sez.
lavoro con la sentenza n. 1185 del 18 gennaio 2017, lo stress da
lavoro, nel momento in cui pregiudica l’abituale e serena esistenza del
dipendente, rientra nella categoria del danno non patrimoniale.
Il danno non patrimoniale riguarda gli effetti negativi (che possono
essere di natura esistenziale, biologica o morale) subiti dal
cittadino di conseguenza ad un fatto illecito, ma danno non patrimoniale, a
differenza dei danni patrimoniali, non da' automaticamente diritto al
risarcimento.
L’avvocato del lavoro esperto in tali problematiche sarà in grado in base
ad una valutazione generale della fattispecie e delle prove a disposizione di
valutare a quale fattispecie si può meglio riferire il vostro caso.
Per contattare il nostro avvocato del lavoro scrivi a: studiolegale@dirittissimo.com
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