giovedì 30 aprile 2020


Intermediari finanziari: presunzione legale della sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio del risparmiatore

(Corte di Cassazione, Sezione I Civile, Sent. n. 7905 del 17 aprile 2020)

In questo articolo si intende mettere in evidenza una recentissima pronuncia della Cassazione che attribuisce responsabilità con conseguente dovere di risarcimento del danno per la perdita subita alle Banche che non adempiono al dovere giuridico di informare correttamente i risparmiatori; esiste una presunzione legale di sussistenza del nesso di causalità fra inadempimento della banca e pregiudizio subito dal risparmiatore.

La Prima Sezione civile della Cassazione, accogliendo (con rinvio) il ricorso di alcuni obbligazionisti Parmalat contro Intesa San Paolo, ha chiarito le conseguenze derivanti dall'omessa informazione al cliente: l'intermediario finanziario che non adempie correttamente agli obblighi informativi deve risarcire il risparmiatore per la perdita subita, in una sorta di automatismo giuridico ("presunzione legale") che postula la sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio.

Nella fattispecie, alcuni risparmiatori avevano lamentato di aver subito sollecitazioni da parte di dipendenti della Banca che avevano loro evidenziato la natura particolarmente vantaggiosa delle operazioni proposte, in assenza della consegna del contratto di intermediazione, del prospetto informativo e di un documento di sintesi sui rischi connessi alle operazioni finanziarie, sostenendo di non essere stati informati - in particolare - dell’alto rischio insito nell’operazione, ottenendo - sul presupposto accertato della violazione degli obblighi informativi posti a carico dell’intermediario - declaratoria di risoluzione per inadempimento dei contratti di intermediazione finanziaria, con condanna della Banca a pagare agli attori le somme corrispondenti a quelle impiegate per l’acquisto dei titoli (sentenza Tribunale di Firenze, 25.9.2009).

La Corte territoriale (Corte di Appello di Firenze, sentenza 3.8.2015) aveva invece accolto il gravame della banca valorizzando la "propensione al rischio" dei risparmiatore e le "scelte pregresse" per dedurne che avrebbero comunque portato a termine l'investimento.          
La Suprema Corte, con la decisione in commento, capovolge il ragionamento sostenendo che l’eventuale dimostrazione di una generica propensione al rischio dell'investitore, "desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse", non vale ad elidere il nesso causale "perché anche l'investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa" avendo sotto mano "tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato".

Il principio di diritto scaturito dalla decisione in commento è il seguente: "Dalla funzione sistematica assegnata all'obbligo informativo gravante sull'intermediario, preordinato al riequilibrio dell'asimmetria del patrimonio conoscitivo-informativo delle parti in favore dell'investitore, al fine consentirgli una scelta realmente consapevole, scaturisce una presunzione legale di sussistenza del nesso causale fra inadempimento informativo e pregiudizio, pur suscettibile di prova contraria da parte dell'intermediario; tale prova, tuttavia, non può consistere nella dimostrazione di una generica propensione al rischio dell'investitore, desunta anche da scelte intrinsecamente rischiose pregresse, perché anche l'investitore speculativamente orientato e disponibile ad assumersi rischi deve poter valutare la sua scelta speculativa e rischiosa nell'ambito di tutte le opzioni dello stesso genere offerte dal mercato, alla luce dei fattori di rischio che gli sono stati segnalati".

Nei contratti relativi alla prestazione di servizi di investimento, infatti, l’intermediario finanziario la l’obbligo di fornire all’investitore un’informazione adeguata in concreto, “tale cioè da soddisfare le specifiche esigenze del singolo rapporto, in relazione alle caratteristiche personali ed alla situazione finanziaria del cliente”: in altri termini, l’assolvimento di tale obbligo implica la formulazione, da parte dell’intermediario stesso, di indicazioni idonee a descrivere la natura, la quantità e la qualità dei prodotti finanziari ed a rappresentarne lo specifico coefficiente di rischio.

Secondo la Cassazione, i predetti obblighi di informazione impongono la comunicazione di tutte le notizie conoscibili in base alla necessaria diligenza professionale e l’indicazione specifica di tutte la ragioni idonee a rendere un’operazione inadeguata rispetto al profilo di rischio dell’investitore (comprese, finanche, quelle relative al rischio di default dell’emittente con conseguente mancato rimborso del capitale investito, in quanto “tali informazioni costituiscono reali fattori per decidere, in modo effettivamente consapevole, se investire o meno”).

Ne deriva che la prova del nesso causale non è eliminata dal mero rilievo di elementi generici, come ad esempio il profilo speculativo ovvero l’elevata propensione al rischio dell’investitore, dovendosi infatti escludere che il cliente possa accettare anche i profili di rischiosità del prodotto finanziario che gli sono ignoti e soni invece conosciuti o prevedibili da parte dell’intermediario finanziario. Pertanto, prosegue la Corte, “sia l’adeguatezza dell’operazione al profilo di rischio del cliente, sia la buona conoscenza del mercato finanziario da pare sua sono totalmente privi di valore inferenziale quanto alla circostanza che il cliente steso, se informato, avrebbe comunque proceduto all’acquisto”.

Il fatto che un investitore propenda per investimenti rischiosi non toglie, infatti, che egli selezioni tra gli investimenti rischiosi quelli a suo giudizio aventi maggiori probabilità di successo, grazie appunto alle informazioni che l’intermediario è tenuto a fornirgli o altrimenti reperite.

Avv. Enrico Vallarolo

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mercoledì 29 aprile 2020



IN QUALI CASI SI PUO’ EFFETTIVAMENTE PARLARE DI MOBBING?
Nel nostro ordinamento non esiste, una definizione normativa di mobbing,  abbiamo solo una nozione dottrinale e giurisprudenziale e questo, senza dubbio,  rende più complicata la sua individuazione.
Esistono alcune pronunce della Corte di Cassazione che definiscono per esempio il mobbing come “una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio psichico e del complesso della sua personalità” (Cass. n. 3785/09; nello stesso senso, ex multis,  Cass .n. 87 del 10 gennaio 2012; Cass. n. 17698/2014; Cass n. 898/2014;  Cass. n. 12437 del 21 maggio 2018).
Dunque, affinchè si configuri il mobbing è necessario che sussistano più elementi concomitanti tra cui:
1)più condotte messe in atto nei confronti del lavoratore, protratte nel tempo, poste in essere dal datore di lavoro o da un suo preposto o da altri dipendenti, sottoposti al potere direttivo dei primi;
2)una volontà vessatoria finalizzata alla persecuzione o emarginazione del dipendente;
3)la conseguente lesione della salute o della personalità del dipendente; 
4)il nesso tra la condotta ed il pregiudizio psico-fisico:
5)la prova dell’elemento soggettivo, ossia dell’intento persecutorio.
Il dipendente che ritiene di essere stato mobbizzato ha l’onere di provare non solo le condotte vessatorie, ma anche la volontà persecutoria, nonché il nesso causale con il danno subito. 
L’elemento psicologico ovvero l’intento vessatorio che sta alla base di tutte le condotte poste in essere dal datore è molto difficile da dimostrare ma è necessario.
Orientamento giurisprudenziale ormai consolidato ammette, tuttavia, che tale prova possa essere fornita con l’utilizzo di presunzioni. Quest’ultime – come sostiene una recente pronuncia della Cassazione (2019) devono essere  gravi, precise e concordanti”.
Non sono dunque sufficienti le semplici asserzioni della lavoratrice che si era limitata a dedurre che solo a lei – a differenza di altri colleghi- – era stato impedito di proseguire con la modalità di tele-lavoro notturno.
Anche il Consiglio di Stato, con pronuncia n. 4471 del 1 luglio 2019 della Sezione 4, ha ribadito che la prova dell’elemento intenzionale e vessatorio del datore di lavoro può essere fornita dal lavoratore anche in base alle caratteristiche oggettive dei comportamenti tenuti, e cioè su presunzioni gravi, precise e concordanti, dai quali è possibile risalire da fatti noti ad altri ignorati.
Una volta provata la sussistenza del mobbing, il lavoratore deve, poi, dimostrare di aver subito un pregiudizio specificandone la natura e la tipologia. 
Per fare ciò il lavoratore ha l’onere della prova di dimostrare attraverso una serie di possibilità quali a titolo esemplificativo ma non esaustivo (sms, email, testimoni) circostanze concrete che attestino la durata, gravità, conoscibilità all’interno ed all’esterno del luogo di lavoro della operata dequalificazione, frustrazione di (precisate e ragionevoli) aspettative di progressione professionale, eventuali reazioni poste in essere nei confronti del datore comprovanti la avvenuta lesione dell’interesse relazionale, gli effetti negativi dispiegati nella abitudini di vita del soggetto“. 
Sono diversi i pregiudizi che un lavoratore può far valere in giudizio se in grado di provare in concreto il danno subito: danno professionale, danno all’integrità psico – fisica o danno biologico, danno all’immagine o alla vita di relazione.
In particolare, segnaliamo che la Cassazione ha ribadito che il danno non patrimoniale derivante dal demansionamento “… è risarcibile ogni qual volta la condotta illecita del datore di lavoro abbia violato, in modo grave, i diritti del lavoratore che siano oggetto di tutela costituzionale, in rapporto alla persistenza del comportamento lesivo, alla durata e reiterazione delle situazioni di disagio professionale e personale, nonché all’inerzia del datore di lavoro rispetto alle istanze del lavoratore, anche a prescindere da uno specifico intento di declassarlo o svilirne i compiti” (così Cassazione n. 9901 del 2018 ).
Da non confondere con il mobbing, esiste un’altra fattispecie non espressamente definita dalla legge, ovvero il DANNO DA STRESS LAVORO CORRELATO.

Come ribadito anche dalla Suprema Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la Sentenza n. 5590 del 22 Marzo 2016, il risarcimento del danno da stress lavoro correlato “si inscrive nella categoria unitaria del danno non patrimoniale causato da inadempimento contrattuale e, in linea generale, la sua risarcibilità presuppone la sussistenza di un pregiudizio concreto sofferto dal titolare dell’interesse leso, sul quale grava l’onere della relativa allegazione e prova, anche attraverso presunzioni semplici.”
Più precisamente, devono sussistere 3 presupposti affinchè il lavoratore possa chiedere il risarcimento del danno da stress lavoro correlato:
1)la condotta censurabile del datore di lavoro;
2)un danno medicalmente accertabile;
3)il nesso di causalità tra la condotta censurabile e il danno.
Quanto alla condotta del datore di lavoro, il riferimento è all’art. 2087 Cod. Civ. che stabilisce l’obbligo del datore di lavoro di “adottare nell'esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
A questo proposito, la Corte di Cassazione chiarisce che “l’obbligo che scaturisce dall’Art. 2087 non può ritenersi limitato al rispetto della legislazione tipica della prevenzione, riguardando altresì il divieto, per il datore di lavoro, di porre in essere, nell’ambito aziendale, comportamenti che siano lesivi del diritto all’integrità psicofisica del lavoratore” (Cass. Civ., Sez. Lav., 02 Maggio 2000 n. 5491).
Da sottolineare che Cassazione ritiene configurabile un danno da stress lavoro correlato anche qualora il datore ometta di adeguare l’organico aziendale  “il mancato adeguamento dell’organico aziendale (in quanto e se determinante un eccessivo carico di lavoro), nonché il mancato impedimento di un superlavoro eccedente – secondo le regole di comune esperienza – la normale tollerabilità, con conseguenti danni alla salute del lavoratore, costituisce violazione degli Artt. 41, comma 2, Cost. e 2087 Cod.Civ., e ciò anche quando l’eccessivo impegno sia frutto di una scelta del lavoratore (estrinsecantesi nell’accettazione di straordinario continuativo – ancorché contenuto nel cosiddetto monte ore massimo contrattuale – o nella rinuncia a periodi di ferie), atteso che il comportamento del lavoratore non esime il datore di lavoro dall’adottare tutte le misure idonee alla tutela dell’integrità fisico-psichica dei dipendenti, comprese quelle intese ad evitare l’eccessività di impegno da parte di soggetti in condizioni di subordinazione socio-economica…”
La responsabilità del modello organizzativo e della distribuzione del lavoro è comunque sempre in capo all'azienda (quindi al datore) che non può sottrarsi agli addebiti che possono derivare dagli effetti lesivi di una inadeguata scansione dei tempi di attività e ha dichiarato il nesso tra l’infarto e l’impegno lavorativo oltre i limiti della tollerabilità.
Per quanto riguarda i danni che un medico può accertare come correlati ad una condizione di stress, essi possono essere svariati: malattie a base organica, come infarti o patologie dell’apparato immunitario o gastrointestinale, oppure malattie neurologiche e psichiche.
Con una nota Sentenza del 2012, la Suprema Corte di Cassazione  (Cass. Civ., Sez. Lav.,  24 Ottobre 2012 n. 18211) ha riconosciuto una somma risarcitoria, pari a € 25.000,00, ad un portinaio che, a causa dei lunghi turni di lavoro (dalle 21.00 alle 9.00), riportava una sindrome nevrotico ansiosa da stress lavorativo.
Secondo una delle ultime pronunce della Corte di Cassazione civile, sez. lavoro con  la sentenza n. 1185 del 18 gennaio 2017,  lo stress da lavoro, nel momento in cui pregiudica l’abituale e serena esistenza del dipendente, rientra nella categoria del danno non patrimoniale.
Il danno non patrimoniale riguarda gli effetti negativi (che possono essere di natura  esistenziale, biologica  o morale) subiti dal cittadino di conseguenza ad un fatto illecito, ma danno non patrimoniale, a differenza dei danni patrimoniali, non da' automaticamente diritto al risarcimento.
L’avvocato del lavoro esperto in tali problematiche sarà in grado in base ad una valutazione generale della fattispecie e delle prove a disposizione di valutare a quale fattispecie si può meglio riferire il vostro caso.
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martedì 14 aprile 2020



AMMINISTRAZIONE DI SOSTEGNO
CHE COS’E’?

L’istituto dell'amministrazione di sostegno è previsto a tutela di tutti quei soggetti con patologie gravi tali da renderli, in via temporanea o permanente, invalidi (parzialmente o totalmente) e non in grado di badare a se stessi e ai loro interessi, anche patrimoniali.
A titolo esemplificativo e non esaustivo si tratta di anziani, disabili fisici o psichici, malati gravi e terminali, persone colpite da ictus, soggetti dediti al gioco d'azzardo, ecc.

Il legislatore ha previsto una forma di protezione per quei soggetti che, per infermità o menomazioni fisiche o psichiche, anche parziali o temporanee, hanno una ridotta autonomia nella loro vita quotidiana. Alle persone disabili, quindi, sono riconosciute delle misure di protezione flessibili, adattabili nel tempo alle diverse e svariate esigenze, in modo tale da consentire una protezione del soggetto debole, senza mai giungere ad una totale esclusione della sua capacità di agire.

E’ bene precisare che l’amministrazione di sostegno non è  un provvedimento di interdizione e non determina in via definitiva l’eliminazione della capacità di agire del soggetto nei cui confronti viene disposta.

COME VIENE NOMINATO L’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO E CHI PUO’ ESSERLO?

L'amministratore di sostegno viene nominato dal Giudice Tutelare; la prima scelta ricade tra i soggetti che fanno parte dello stesso ambito familiare dell'assistito, secondo requisiti di idoneità ritenuti dallo stesso Giudice. Viene infatti solitamente nominato amministratore di sostegno: il coniuge (o la persona stabilmente convivente, il padre, la madre, il figlio, il fratello o la sorella ed i parenti entro il quarto grado. Sono questi i soggetti legittimati ad agire, oppure (comunque) quelli che devono essere informati della pendenza del ricorso presentato dinanzi al Giudice.
Qualora tale scelta non sia possibile, per motivi di opportunità o altro (ad esempio conflitti tra prossimi parenti), l'amministratore viene nominato dal Tribunale tenuto conto dell'esclusivo interesse del beneficiario.

DOVERI DELL’AMMINISTRATORE DI SOSTEGNO

L’amministratore di sostegno deve procedere a richiedere una autorizzazione del Giudice Tutelare per:
- acquistare beni, tranne i mobili necessari per l'economia domestica e per l'amministrazione del patrimonio;
- riscuotere capitali, consentire alla cancellazione di ipoteche o allo svincolo di pegni, assumere obbligazioni;
- accettare eredita' o rinunciarvi, accettare donazioni o legati;
- fare contratti di locazione d'immobili di durata superiore ai nove anni;
- promuovere giudizi, salvo che si tratti di denunzie di nuova opera o di danno temuto, di azioni possessorie o di sfratto e di azioni per riscuotere frutti o per ottenere provvedimenti conservativi.
E' richiesta l'autorizzazione del Tribunale, su parere del Giudice Tutelare per:
- alienare beni, eccettuati frutti e mobili soggetti a facile deterioramento; Quando nel dare l'autorizzazione il Tribunale non ha stabilito il modo di erogazione o di reimpiego del prezzo, lo stabilisce il giudice tutelare.
- costituire pegni o ipoteche;
- procedere a divisione o promuovere i relativi giudizi;
- fare compromessi e transazioni o accettare concordati.

Gli atti compiuti senza osservare le norme e le previsioni di cui sopra, possono essere annullati su istanza del tutore o del minore o dei suoi eredi o aventi causa.
L'amministratore di sostegno deve redigere entro un anno dalla nomina, e per i successivi anni in cui e' incaricato, un rendiconto attestante l'attività economica del beneficiario. L'amministratore deve sottoscrivere il rendiconto annuale e gli allegati, e depositarlo entro l'anno, dalla data del giuramento, presso Il Tribunale competente. Il deposito di questa documentazione e' obbligo specifico, la cui mancanza può dare origine a responsabilità personale, ed a rimozione immediata dall'ufficio di amministratore di sostegno.

COME SI PRESENTA LA DOMANDA?

La domanda può essere presentata dallo stesso beneficiario (anche se minore, interdetto o inabilitato), dal coniuge (o dalla persona stabilmente convivente), dai parenti entro il 4° grado, dagli affini entro il 2° grado, dal tutore o curatore e dal Pubblico Ministero. I responsabili dei servizi socio-sanitari, che abbiano conoscenza di fatti tali da rendere necessario il procedimento di amministrazione di sostegno, sono tenuti a presentare autonomamente la richiesta. La domanda, va presentata al Giudice Tutelare del luogo di residenza o di stabile domicilio del beneficiario.
Con la domanda si richiede l'apertura dell'amministrazione di sostegno e contestualmente si indica al Giudice la persona che il ricorrente ritiene può idonea per tale incarico.

DOCUMENTI DA ALLEGARE ALLA DOMANDA

Si precisa che la domanda deve essere corredata dei seguenti documenti e allegati:

- copia integrale dell'atto di nascita;
- fotocopia del codice fiscale della persona per la quale si chiede l'amministrazione di sostegno;
- certificato del medico curante attestante la condizione psicofisica del soggetto con riferimento dettagliato alla sua incapacità parziale o totale di badare a se stesso;
- eventuale certificato medico che attesti l'assoluta impossibilità del beneficiario di raggiungere il Palazzo di Giustizia, neppure in ambulanza;
-l’indicazione del nominativo della persona idonea prescelta, quale amministratore di sostegno da parte dei parenti stretti;
- inventario del patrimonio e dei redditi del beneficiario;
- documenti attestanti l'eventuale opposizione alla domanda di amministrazione di sostegno da parte di parenti stretti;
-documenti di identità del richiedente e del beneficiario.

Successivamente alla presentazione della domanda in cancelleria (con ricorso e con l’ausilio di un legale) verrà designato un Giudice Tutelare per la trattazione dell'istanza e l’emissione del provvedimento richiesto. Nel corso dell'udienza che viene fissata, il Giudice provvede ad esaminare il soggetto per cui è chiesta l’amministrazione di sostegno beneficiario (che deve quindi essere presente in udienza, salvo casi di comprovata intrasportabilità) e i suoi congiunti entro il quarto grado, nonché tutta la documentazione medica allegata all'istanza. Il giudice al contempo verificherà la disponibilità e l'idoneità di eventuali parenti a rivestire l'incarico di amministratore di sostegno.
Successivamente all'acquisizione di parere favorevole da parte del Pubblico Ministero, il Giudice emette il decreto di nomina e stabilisce i poteri dell'amministratore di sostegno in relazione alle esigenze del beneficiario.
Qualora ci fosse un parente contrario al provvedimento autorizzativo dell’amministrazione di sostegno (decreto del Giudice Tutelare) quest’ultimo potrà proporre un reclamo alla Corte d'Appello competente.

Il professionista dello Studio Legale Dirittissimo è a disposizione per attivare amministrazioni di sostegno e/o gestirne le fasi procedurali nonché eventualmente proporre reclamo al decreto di ammissione.

Per info e contatti: studiolegale@dirittissimo.com

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Avv. Alessandro Milani